“Qui dal Libano, noi siriani lottiamo da soli contro Assad”

“Qui dal Libano, noi siriani lottiamo da soli contro Assad”

BEIRUT/TRIPOLI – È un po’ come se ad un certo punto la storia avesse deciso di andare in senso contrario. Per oltre trent’anni, dalla scoppio della guerra civile a metà degli anni settanta, il Libano era stato un satellite della Siria.

L’esercito di Damasco si ritirò solo nel 2005, dopo l’attentato a Rafic Hariri e la condanna del mondo intero. Adesso, dopo sette anni, il Libano è diventato un teatro importante nella crisi siriana. Lo confermano anche gli scontri di questi ultimi giorni in diverse zone del paese. Qui sono scappati migliaia di siriani. Sicuramente più di ventimila. Non ci sono cifre ufficiali. Sono in fuga da Homs, Hama, Idlib, Deraa, Damasco.

Beirut non riconosce i profughi. A differenza della Turchia, dove ci sono diversi campi di accoglienza, i rifugiati vengono ospitati privatamente, oppure hanno trovato una sistemazione di fortuna grazie alla generosità della popolazione locale. Civili, intere famiglie, donne, bambini e tanti attivisti. Miliziani armati, coordinatori dei comitati locali dell’opposizione, attivisti della rete. Una comunità che per necessità ha fatto del Libano la sua base operativa.

La maggior parte dei siriani si trova nel nord, zona a maggioranza sunnita, come l’opposizione al regime di Damasco. Ma ci sono siriani anche nei pochi centri sunniti della Valle della Bekaa, una roccaforte sciita controllata da Hezbollah. Uno di questi centri è Saadnayel, non lontano dal confine siriano. In una zona di aperta campagna si nascondono alcuni miliziani dell’Esercito Libero Siriano.

Abou Hassan, venticinque anni, è di Al Qusayr, sotto Homs. È qui con la moglie e la figlia di otto mesi: «Siamo andati via perché eravamo sotto assedio. C’erano bombardamenti molto pesanti. Non avevamo più armi e munizioni per difenderci. Uscivamo a proteggere le manifestazioni solo con la nostra pistola, non si potevano organizzare agguati o attaccare le postazioni governative. Ci limitavamo ad attaccare l’esercito quando colpiva la gente nelle strade o nelle piazze. So che alcuni paesi arabi sponsorizzano l’invio di armi ai ribelli, be’ a noi non arrivavano nemmeno cibo e medicine».

La famiglia di Abou Hassan vive con altre tre famiglie in due stanze improvvisate. In una casa in costruzione. La cucina è un fornello da campeggio a due fuochi. Che deve bastare per più di venti persone. «Qui ci sentiamo sicuri – ci racconta un altro miliziano, Abou Annad – perché siamo in un villaggio sunnita, ma da qui non uscirei mai. Alcuni siriani sono stati arrestati, sequestrati e non abbiamo mai più saputo nulla». Prima di lasciarci andare da Saadnayel, i miliziani ci ricordano che vorrebbero combattere anche contro i russi, per l’appoggio di Mosca al regime di Assad.

Profughi siriani fuggiti dalla città di Qusayr all’arrivo in Libano (Afp)

Per i siriani dell’opposizione c’è però un luogo più sicuro. Tripoli, la seconda città libanese. Due ore di macchina a nord di Beirut, non lontana dal confine siriano che tocca la periferia sud di Homs.
Qui non arrivano solamente i feriti. Arrivano anche molti attivisti, perché da qui è possibile aiutare direttamente chi è rimasto in Siria. Abou Raed è venuto qui per assistere lo zio, ricoverato all’ospedale di Tripoli.

È tra gli attivisti di Homs che organizzarono la fuga in Libano dei giornalisti occidentali rimasti intrappolati a Bab Amr, dopo il bombardamento nel quale morirono anche Mary Colvin e Remi Ochlik. «Da qui riusciamo a mandare armi all’opposizione. Raccogliamo i soldi, compriamo le armi e poi l’Esercito Libero Siriano si occupa del trasferimento in Siria». L’invio di armi ai ribelli è un grosso problema per l’opposizione ad Assad. I paesi arabi del golfo – i principali nemici di Damasco e i fautori di un intervento in Siria – hanno promesso più volte un supporto pratico all’opposizione, ma finora hanno fatto ben poco.

Nella zona di Abou Samra, alla periferia di Tripoli, il personale del centro di accoglienza gestito dall’Alta Commissione per il Soccorso Siriano, una delle organizzazioni dell’opposizione, ci dice che la rivolta avrebbe bisogno di molte più armi. La maggior parte arriva ancora dai militari che hanno disertato e sono passati con i ribelli.
«Oltre a questo centro – ci racconta Nour Idris, ventitré anni, da Damasco – abbiamo una squadra a Wadi Khalid, nel nord, e un’altra nella Bekaa. I feriti vengono portati al confine con il Libano dall’Esercito Libero Siriano. Noi li trasferiamo negli ospedali e vengono da noi solo in un secondo momento, per la riabilitazione. Qui non facciamo differenza tra civili e militari. Chi ha bisogno viene aiutato. Il resto non ci interessa». In effetti questo centro va ben oltre l’accoglienza ai feriti.

L’obitorio dell’ospedale di Houla, Siria (Afp/ Ho / Shaam News Network) 

Da qui partono gli aiuti per la popolazione civile e i rifornimenti per i miliziani, da qui ritornano in Siria gli attivisti e vengono smistate le informazioni sulla rivolta. Diversi ragazzi, costretti a letto dalla ferite riportate nei mesi scorsi, passano intere giornate al telefono e al computer portatile. Girano all’esterno le notizie che arrivano dal campo e spesso aiutano i loro compagni in Siria.

«Molte volte – ci spiega Abou Mahmud – le persone dei diversi quartieri di Homs non riescono a comunicare tra loro. Ma ad un certo punto riescono a palare con noi, che facciamo da tramite. Oppure siamo noi a suggerirgli come bisogna spostarsi durante i bombardamenti».

Temir, diciassette anni, è stato colpito ad una gamba da un cecchino mentre andava a cercare del cibo a Bab Amr, il quartiere più martoriato di Homs, dove c’è ancora la sua famiglia. «Voglio solo una cosa dalla mia vita. Una volta guarito voglio tornare a Bab Amr ed entrare nell’Esercito Libero Siriano. Allah ha voluto che le cose andassero così, vuol dire che voleva farmi più forte per permettermi di combattere».

Il compagno di stanza di Temir è un ragazzino di sedici anni che ha perso la gamba mentre portava sulle spalle alcuni feriti correndo verso il confine libanese, disseminato di mine anti-uomo. La sua immagine tiene dentro tutta questa brutta storia. Fatta di civili in fuga, miliziani improvvisati, un’opposizione litigiosa e un regime che non guarda in faccia a nessuno. Una storia, ci hanno detto in molti in Libano, che durerà ancora a lungo.

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