Sicurezza, opere pubbliche e territorio: così vince la ricetta Tosi

Sicurezza, opere pubbliche e territorio: così vince la ricetta Tosi

VERONA – Si è avverata la profezia di Massimo Cacciari: Flavio Tosi si conferma sindaco di Verona vincendo al primo turno. Prender meno del 60,75 per cento di cinque anni fa, ma se allora era il candidato di un centrodestra unito, stavolta il successo è praticamente tutto suo.

La Lega Nord, unico partito che lo sosteneva al di là del bizzarro e pressoché ininfluente appoggio dell’Api di Rutelli, pagherà un dazio pesante dopo settimane sulla graticola. La sua lista civica è destinata invece a fare il botto, diventando prima forza della città: le prime proiezioni la avvicinano al 40 per cento dei voti. Merito certo del traino del suo “brand” personale, ma anche di un mix eterogeneo di amministratori uscenti del Pdl ex forzisti, ex missini, ex democristiani e pure gente senza chiare appartenenze politiche, tutti leali nei suoi confronti e depositari di buoni pacchetti di preferenze.

Questo in definitiva conta per Tosi: nonostante il presenzialismo televisivo e il gusto per le sparate mediatiche, è e rimane un politico vecchio stampo, per cui il merito in politica si misura principalmente con la fedeltà e con il consenso. Tanti l’hanno definito un neo-democristiano e lui, ammiratore postumo di Mariano Rumor, non s’offende al paragone. Perché dai democristiani, oltre che la presa sul territorio mantenuta anche grazie ad un controllo quasi militare dei posti di comando nelle istituzioni come nei consigli di amministrazione di aziende pubbliche e para-pubbliche, ha imparato a tenere insieme gli opposti. Per essere, ancora una volta, «il sindaco di tutti i veronesi» – come recita il suo slogan elettorale – è stato capace di essere indipendentista e nazionalista, tribuno del popolo e interlocutore dei poteri forti, duro con gli immigrati e benvoluto dalla Chiesa. Alla fine lo hanno votato anche gli animalisti, per intercessione dell’ex “cerchista” Francesca Martini: un bel colpo d’immagine, per uno che è pure il presidente veneto di Federcaccia.

Tosi ha dimostrato che un leghista può vincere anche oggi, da solo, in un grande città del Nord. Ma d’altra parte – si era chiesto retoricamente Cacciari – chi dovrebbero votare i veronesi? Non quel «ferro vecchio riciclato da tutte le parti» di Luigi Castelletti, ex presidente della Fiera di Verona, vicepresidente uscente di UniCredit, e candidato del centrodestra che già cinque anni fa era papabile. Il Pdl scaricato da Tosi e successivamente dai suoi amministratori più popolari (al momento sospesi dal partito) ha cercato invano di promuoverlo come l’icona della competenza e della concretezza contro un sindaco «tutta televisione e niente sostanza». E lo stesso Castelletti – con una campagna che negli ultimi giorni si è fatta sempre più velenosa, spalleggiato più di tutti dal leader locale dell’Udc Stefano Valdegamberi – ha attaccato frontalmente Tosi sulle sue conquiste amministrative più importanti, quel filotto di grandi opere progettate nel primo mandato (un traforo per completare l’anello delle tangenziali, il filobus, un mega-parcheggio sotterraneo nell’area dell’ex gasometro) e che ora promette di completare nel secondo.

Perché – si è chiesto più volte l’avvocato-banchiere – i bandi del Comune sono stati vinti sempre dallo stesso gruppo di aziende? A dargli man forte è arrivata anche un’inchiesta de L’Espresso, che ha svelato come le due più importanti società coinvolte in queste opere siano controllate da fiduciarie. Così, sono arrivate nuove domande, dense di malizia: chi c’è davvero dietro queste società? Chi è che si appresta a investire oltre un miliardo di euro a Verona nei prossimi anni?

Tosi, per tutta risposta, ha inviato la documentazione relativa agli appalti direttamente in Procura: ci pensino i magistrati a stabilire se c’è qualche irregolarità. Castelletti ha avuto poi la sventura di scivolare su un paio di bucce di banana. Per giustificare all’opinione pubblica il suo sontuoso 740, circa 450mila euro frutto in buona parte degli emolumenti di UniCredit, si è definito un “precario”. Poi, è arrivato in città il ciclone Fabrizio Cicchitto: «La casta politica? Pensate piuttosto alla casta dei manager di banca, che hanno combinato i pasticci che sappiamo, e che hanno stipendi di fronte a cui quelli di noi politici sono barzellette. Eppure nessuno ne parla». Il risultato dell’alternativa a Tosi del centrodestra è un misero 9%, che comprende oltre ai voti del Pdl, quelli dell’Udc, di Fli, del nuovo Psi e della civica di Castelletti. Una debacle senza precedenti. Il pressoché sconosciuto Gianni Benciolini, candidato del Movimento 5 Stelle, pare destinato a prendere di più, da solo, e sorpassare il dieci per cento.

Quanto a Michele Bertucco, candidato del centrosinistra, si è confermato, come predetto dal solito Cacciari, «un puro candidato di testimonianza». Vincitore lo scorso dicembre di primarie poco partecipate (meno di cinquemila votanti) e a capo di una coalizione modello “Vasto” con Partito democratico, Italia dei Valori, Sel e pure la Federazione della Sinistra, l’ex presidente regionale di Legambiente non ha preso nemmeno un voto al di fuori del bacino tradizionale del centrosinistra veronese, anzi ne ha persi: prenderà secondo le proiezioni il 23 per cento, dieci punti in meno di cinque anni fa.

Nemmeno l’ingaggio dell’agenzia di comunicazione che ha orchestrato la campagna elettorale di Pisapia a Milano, gli ha portato fortuna con lo slogan “preparati al meglio”. Lui ci ha messo del suo: a suo agio nel trattare temi ambientali e legati alla mobilità (Verona è davvero malata di traffico, e non lo dice Johnny Stecchino per parlar d’altro), non ha saputo dare slancio alla sua proposta politica né imporre una sua “narrazione”, come direbbe il suo alleato Vendola. Non è un trascinatore, Bertucco, e non ha fatto nulla per diventarlo. Alla domanda di un giornalista sul suo piatto preferito, ha risposto, “riso in bianco”. Ma la Verona che non si riconosce in Tosi voleva sapori diversi, meno neutri. E non trovandoli, se n’è rimasta a casa: l’astensione ha superato il 30 per cento.

Con il trionfo di Tosi, va in archivio – forse per sempre – la Lega Nord come l’abbiamo conosciuta finora. Sguinzagliato per tempo dall’amico e alleato Roberto Maroni, che ha chiuso la sua campagna elettorale venerdì sera con un comizio in piazza dei Signori definendolo «la punta di diamante» (e ogni riferimento ai diamanti di Belsito non è puramente casuale) e il “futuro” del Carroccio, Tosi raccoglie ora i frutti della sua carriera di leghista “eretico”. Più volte vicino all’espulsione per le sue posizioni contro la linea del partito – sul governo Berlusconi, sulla secessione – ma in definitiva per il reato di lesa maestà contro Umberto Bossi e, soprattutto, contro il suo cerchio magico. Ma oggi che Bossi è un semplice militante e il cerchio è in corso di epurazione dopo aver esposto il Carroccio alla più grande figuraccia della sua storia pluriventennale, Tosi può permettersi di dire che la ricandidatura del Senatùr alla segreteria federale è «inopportuna».

E nessuno che si azzardi a contraddirlo: tutti sanno che la sua rielezione a sindaco di Verona è solo il preludio alla cavalcata che, da qui a un mese, lo porterà con tutta probabilità a prendersi la segreteria veneta della Lega dalle mani del “bossiano” di Treviso Giampaolo Gobbo, in sella dal ’98, ma oggi solo un sergente senza più generale. E da lì in poi, la scalata di Maroni ai vertici del Carroccio non troverà più ostacoli.