Dal Sud America alla Spagna, passando per la Croazia e la Grecia fino ad arrivare in Italia. Nelle discoteche, agli angoli delle strade e nei salotti buoni. È questa la rotta della cocaina, la polvere bianca estratta dalle foglie di coca coltivate in Perù, Colombia e Bolivia, che il 4,8% degli italiani ha provato almeno una volta nella vita. E dietro i “corrieri” della droga, si nasconde la mano della criminalità organizzata. Con la ‘ndrangheta in testa, che per il traffico degli stupefacenti non disdegna alleanze all’estero. Come è emerso dalla maxi operazione “Magna Charta” dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale, che ha svelato l’esistenza di un sodalizio criminale tra la mafia bulgara e le cosche calabresi, portando all’arresto di trenta persone tra Italia, Bulgaria, Slovenia, Spagna, Olanda, Finlandia e Croazia. Una vera e propria multinazionale del narcotraffico, con tanto di flotta di catamarani e grandi barche a vela, che tramite i moli spagnoli e portoghesi apriva le porte dell’Europa alle tonnellate di cocaina traghettate in pieno oceano Atlantico dalle “navi madre” provenienti dall’America latina.
Le 656 pagine del Ros, dense di intercettazioni telefoniche tra corrieri e trafficanti, fotografano un business che, secondo il rapporto 2011 dell’osservatorio sul crimine e la droga delle Nazioni Unite, supera i 33 miliardi di dollari (26 miliardi di euro circa) all’anno solo nell’Europa occidentale e centrale. Così come confermano i sette anni di indagine che hanno coinvolto prima la Direzione distrettuale antimafia di Torino e poi quella di Milano, «la penisola iberica, seguita dall’Olanda e dal Belgio, continua a essere il principale punto di entrata dei carichi di cocaina», oltre alla regione dei Balcani.
La produzione delle foglie della coca avviene principalmente in Bolivia, Colombia e Perù. Nel 2010, solo in questi tre Stati – secondo i dati Onu – 166.185 ettari di terreno erano coltivati con l’arbusto della famiglia delle Erythroxylaceae. Dal lavoro dei contadini sudamericani – che come riporta il libro Cocaina spa di Vincenzo Spagnolo guadagnerebbero 20-30 euro a settimana per raspare le foglie di coca – , le piante vengono poi trasformate in polvere bianca tramite un procedimento chimico che separa i cristalli, varcando le porte del vecchio continente attraverso i narcotrafficanti. Un chilo di polvere bianca pura, spiega Spagnolo, viene “tagliato”, cioè mischiato con altre sostanze, fino a quattro volte. In questo mercato la figura fondamentale è quella del “broker”, che acquista la coca a un prezzo e la vende a un altro. Naturalmente più alto. Così, se un chilo di polvere viene comprato in Sud America a 1.500-2.000 dollari, in Europa viene rivenduto a un prezzo compreso tra i 25 mila e i 40 mila euro. Per poi arrivare all’ultimo tassello della catena, il consumatore di droga, che la compra dagli spacciatori a un prezzo di 99 dollari (circa 78 euro) al grammo. In questo modo, il volume d’affari mondiale del mercato della coca supera anche i 500 miliardi di dollari, da spartire nella trafila che va dai campesinos (i contadini sudamericani) ai chimici, dai broker ai corrieri, fino ai pusher che vendono la droga nelle discoteche e agli angoli delle strade.
Come emerge dalle investigazioni del Ros, la “joint venture” italo-bulgara in soli due anni era riuscita a guadagnare ben 50 milioni di euro. E dalle indagini patrimoniali internazionali è emerso anche come alcuni componenti dell’organizzazione avessero depositato nelle banche svizzere fino a 10 milioni di euro, che sono stati sequestrati. Le indagini partono nel maggio 2005, quando i carabinieri scoprono che una cellula della ‘ndrangheta calabrese torinese si riforniva di droga da una organizzazione criminale bulgara. Quella estate viene arrestato uno dei corrieri bulgari, Stefan Ivanov Petrov, fermato all’aeroporto Ezeiza di Buenos Aires e trovato in possesso di 5,7 chilogrammi di cocaina. Nel corso del 2006 vengono effettuati poi altri sequestri negli aeroporti di Milano e Amsterdam, considerate le due centrali operative dello smistamento della coca in Europa. Finché nel 2007, attraverso l’attività investigativa della polizia spagnola e portoghese, si arriva al sequestro di 6 mila chilogrammi di cocaina, trovata a bordo di due navi. Una, il veliero Blaus VII, intercettata a 100 miglia a nordovest dell’arcipelago portoghese di Madeira con 1.500 chili di cocaina a bordo. L’altra, Oct Challenger, fermata dalla polizia doganale spagnola in acque internazionali con 4.500 chili di polvere bianca.
Il gruppo criminale, scrivono gli inquirenti, in Italia faceva capo a Radoslav Georgiev Atanasov, che a sua volta prendeva ordini dal “grande capo” bulgaro Evelin Nicolov Banev, conosciuto con lo pseudonimo di “B” o “Brendo”. Sarebbe stato Banev, ricco uomo d’affari esperto di wrestling ed erede della vecchia mafia bulgara che negli anni Ottanta si era impadronita della rotta balcanica, a gestire tutte le fasi del traffico della droga. Dal finanziamento delle importazioni di coca al trasporto in Italia, Spagna, Olanda e Germania. Una volta arrivata nel nostro Paese, poi, a occuparsi della distribuzione sarebbe stata una cellula piemontese della ‘ndrangheta, riconducibile alle cosche di Rosarno (Reggio Calabria) e in particolare alla famiglia Bellocco.
Tutto era pianificato con cura. E ciascuno, nell’organizzazione, aveva il suo ruolo. Il trasporto della cocaina avveniva o via mare o attraverso una rete di “ovulatori”, corrieri umani che trasportavano la droga ingerendo piccoli ovuli di 10-12 centimetri contenenti la sostanza stupefacente. Le centrali operative italiane si trovavano a Milano, che nelle intercettazioni telefoniche viene indicata come «la città grande», e a Roma, dove dall’aeroporto di Fiumicino la droga veniva stoccata per raggiungere tutto il Nord Italia.
Il traffico via mare
La rotta era ormai consolidata. La flotta del narcotraffico, composta da catamarani e grandi barche a vela noleggiate (dai 40 mila agli 80 mila euro al mese) da armatori di diverse nazionalità, stazionava tra le isole Baleari e le Canarie, per poi raggiungere attraverso il sistema satellitare Gps i punti di scambio nell’Oceano Atlantico, dove imbarcazioni commerciali provenienti dal Sud America consegnavano la “merce” destinata all’Europa. La parte italiana, collegata a una costola piemontese della famiglia di ‘ndrangheta Bellocco, originaria di Rosarno (Reggio Calabria), curava la logistica del traffico. Al vertice dell’organizzazione ci sarebbe stato Antonio Melato, residente a Padova ma da anni in Croazia, che «dirigeva le operazioni di trasbordo della cocaina». Melato, considerato il “braccio destro” di Banev, «era il vertice di un gruppo composto da cittadini italiani, romeni, georgiani, greci dedito all’organizzazione della logistica (reperimento navi, imbarcazioni da diporto, barche a vela, individuazione dei porti, reperimento skipper) e al trasporto sulla terraferma della sostanza stupefacente, nello specifico al trasbordo della cocaina dalla “nave madre”, che proveniente dal Sud America stazionava al largo delle coste iberico/portoghesi, sulle navi o imbarcazioni d’altura che l’associazione acquistava o affittava». Queste imbarcazioni rimanevano ormeggiate nelle isole Canarie e nell’isola di Madeira, per poi partire alla volta dell’Oceano e tornare imbottite di cocaina nei porti spagnoli o portoghesi meno controllati.
Le indagini dei carabinieri hanno monitorato i trasferimenti di Melato prima a Madeira e poi a Girona, dove il referente italiano di Banev sarebbe più volte approdato per meglio seguire le operazioni di trasbordo della cocaina. Tanto da trasferire sulle coste spagnole anche un catamarano di sua proprietà, Black Shark, che il 25 settembre 2007 era salpato dalla Croazia per raggiungere il porto di Roses, a Girona. Altri personaggi chiave nel Nord Italia sarebbero stati Gianfranco Cardone e i fratelli Fabio e Lucio Cattelan, tutti veneti, che si occupavano del reclutamento degli skipper e della ricerca delle imbarcazioni con i doppifondi da utilizzare per il trasporto dello stupefacente. È a Cardone che Melato si rivolge per richiedere «altre persone da impegnare una “al motore” e una “con gli stracci”», ovvero su una nave a motore e su una barca a vela. Parte integrante della organizzazione erano anche il figlio di Melato e altre figure come Mattia Voltan, Luigi Acampora e Bruno Nardotto, quest’ultimo con il compito specifico di procurare i telefoni satellitari da usare durante i trasbordi.
«Le successive emergenze investigative», scrivono gli inquirenti, «hanno consentito di acclarare che il gruppo criminale composto essenzialmente da cittadini italiani operava in sinergia con il sodalizio transnazionale riconducibile al noto Banev Evelin Nikolov». Nel corso delle indagini i carabinieri hanno documentato anche numerosi viaggi di Antonio Melato a Sofia, dove il capo italiano ha più volte incontrato «i vertici del sodalizio bulgaro e concordato l’importazione di ingenti quantitativi di stupefacenti». Gli incontri con i sodali italiani, invece, avvenivano in Slovenia. Gli italiani, si legge nelle carte, «in alcune occasioni erano clienti dei bulgari, in altre invece finanziavano direttamente l’acquisto degli stupefacenti». Nel primo caso, i bulgari acquistavano la sostanza stupefacente dai cartelli colombiani e finanziavano direttamente Melato, che aveva il compito di prelevare lo stupefacente nell’Oceano Atlantico e organizzare il trasporto fino al luogo di destinazione. Spesso, infatti, sono gli italiani ad aspettare il “via” dai bulgari per portare a termine l’importazione di stupefacente. I connazionali di Banev, dalla Bulgaria, spedivano in Italia il denaro da usare per l’affitto delle imbarcazioni e il pagamento degli equipaggi all’interno di valigie trasportate dai membri dell’organizzazione come normali bagagli da stiva degli aerei. Tanto che, come dice uno di loro in una conversazione telefonica, «c’hai il patema d’animo finché arrivi».
L’organizzazione di ciascun trasbordo è curata nei minimi particolari. In una intercettazione Melato esprime la preoccupazione che una manovra sbagliata del catamarano appena noleggiato possa far perdere il prezioso carico trasportato. «Io per fare quel lavoro lì dovrei uscire un po’ di volte per vedere se sono all’altezza», dice, «non ho mai fatto, non sono stato mai fuori… è un rischio per me ma anche per la roba che c’è sopra se li perdo». I corrieri parlano della possibilità di usare motoscafi con motori molto potenti, sebbene presentino lo svantaggio di avere una scarsa autonomia di crociera. Tutti, nell’organizzazione dei viaggi, hanno un nome in codice. C’era «il ragazzo della città grande», referente dello spaccio milanese, e poi «il piccolo», «il grasso», «il gancio» e «il coco». I corrieri vengono indicati utilizzando la parola «dottore», mentre i chili di cocaina vengono chiamati «macchine» e la droga è l’«autotrasporto» o «la trave». Nelle telefonate si parla della purezza della polvere, che «è di nuovo molto fine». Alcune volte gli italiani discutono con i bulgari per i ritardi nelle consegne e le scadenze imminenti dei noleggi dei catamarani. E anche i narcotrafficanti, al di là del traffico, sembrano condurre una vita normale e ogni tanto devono assentarsi dal lavoro. Uno di loro non può lavorare perché impegnato per un matrimonio in Bulgaria, un altro deve fare un’operazione agli occhi in Germania e un altro ancora deve assistere il suocero «che si è appena operato di ernia».
Una volta arrivata in Europa, la cocaina viene rivenduta a un prezzo di 25.500 euro al chilogrammo. Con i proventi del traffico, l’organizzazione si occupava anche delle spese legali dei corrieri arrestati nelle fasi di trasporto. Come nel caso del romeno Paolo Fenu, fermato dalla polizia di Milano al casello di Agate Brianza perché trovato in possesso di 159 sacchetti di plastica vuoti con tracce di coca per un peso di 1,6 chilogrammi.
Gli ovulatori
Atanasov, referente di Banev in Italia, sarebbe stato anche l’organizzatore di una rete transnazionale di cocaina importata dal Sud America attraverso i cosiddetti “ovulatori”, i corrieri che trasportano la droga ingoiando o inserendo nella vagina gli ovuli riempiti di cocaina. Il cittadino bulgaro aveva affittato a Milano un appartamento in via Greppi 4 e un altro in via Anzani 1, utilizzando documenti falsi. Qui, i corrieri che avevano ingerito gli ovuli alloggiavano per espellere le palline piene di cocaina tramite le feci.
L’organizzazione aveva stabilito la sua base prima in Venezuela (nell’isola di Margarita) e poi nella Repubblica Dominicana. Da lì, i corrieri, dopo aver ingerito gli ovuli, raggiungevano l’Europa attraverso gli aeroporti di Amsterdam e Madrid. E da qui, Roma e Milano. All’aeroporto di Malpensa il 7 aprile 2006 i carabinieri di Gallarate arrestano due corrieri bulgari provenienti dalla Repubblica Dominicana, che avevano ingoiato 4,1 chilogrammi di cocaina sotto forma di ovuli. Uno dei due fermati è una donna, E. A. S. , che dopo l’arresto decide di collaborare con le autorità italiane, contribuendo a svelare la rete degli ovulatori e a individuare il sodalizio criminale italo-bulgaro.
Anche in questo caso l’organizzazione era pressoché perfetta. C’era chi comprava i pacchetti turistici per i viaggi dalla Bulgaria al Venezuela e chi, in Sud America, era pronto ad accogliere gli ovulatori e a spiegare loro come ingerire la coca. Ognuno dei corrieri, ha confessato la donna, ingeriva gli ovuli «nella propria stanza, il quantitativo complessivo era di poco più di 4 chilogrammi, ricordo che la ragazza (che era con lei, ndr) riuscì a ingerire solo 20 ovuli mentre io ne ingerii circa 100». Ciascun ovulo conteneva 10-12 grammi di cocaina. «Quando io sono stata arrestata», continua, «i componenti dell’organizzazione stavano studiando il modo per farli ingerire più facilmente, usando uno strumento che doveva servire per dilatare la bocca. Gli ovuli venivano assunti a stomaco vuoto unitamente a pastiglie antidiarrea e antivomito e a uno spray anestetizzante viene spruzzato in gola». Per il confezionamento dell’ovulo, aggiunge, «viene usata una pressa particolare, la cocaina viene schiacciata all’interno delle dita di un guanto di lattice, l’ovulo viene avvolto in una pellicola “domo pack”. Sono poi nuovamente rivestiti in lattice e “domo pack” e immersi nella cera sciolta».
Per ogni chilogrammo trasportato le dissero che avrebbe «guadagnato da uno a due mila euro». Dieci volte lo stipendio della ragazza bulgara. I capi dell’organizzazione consegnavano ai gruppi di ovulatori i biglietti da viaggio in pullman per l’Italia e anche quelli aerei da Milano a Caracas andata e ritorno. La ragazza arriva per la prima volta a Milano nel giugno del 2005. Qui trova una camera in un albergo vicino all’aeroporto di Linate, da dove il giorno seguente riparte per il Venezuela. Ad aspettarla a Caracas c’è un suo connazionale che si fa chiamare Boris. Ma «solo alla fine mi spiegarono che avrei dovuto trasportare cocaina», racconta. Una volta ingeriti gli ovuli, pari a 700 grammi di cocaina, ritorna a Milano, dove consegna la droga a due bulgari che il giorno dopo la pagano con 1.000 euro, precisandole che «in Bulgaria avrebbe ricevuto la rimanente parte pari a 600 euro». Dopo due mesi, la donna riparte per il Venezuela. Questa volta riesce a ingerire 80 ovuli, tanto che alla fine del viaggio viene promossa come «parte integrante dell’organizzazione» e lascia il suo lavoro.
La rotta non era sempre la stessa. Dalla Bulgaria, come veri e propri pacchi di cocaina, gli ovulatori venivano inviati in Olanda o in Spagna, dove i loro passaporti erano sostituiti con altri documenti falsi. La tappa successiva era il Sud America: qui i corrieri ingerivano la cocaina, per poi tornare di nuovo in Spagna e Olanda per espellerla. I capi dell’organizzazione sono stati intercettati mentre si aggiornano su quanti ovuli avessero ingoiato i corrieri appena approdati in America latina. «La ragazza 103, suo marito 48 e l’altro che è con lui 82», dicono, mentre «quello grasso 78, quello con i tatuaggi 80 e quello più piccolo 22». Gli altri, quelli che aspettano la droga in Italia, chiedono invece a che punto fossero i corrieri nella espulsione degli ovuli: «Però tu guarda se … lui va a cagare subito.. sai non può tenere tanto deve andare da qualche parte a fare», dice Atanasov. E il referente di Milano, che deve ritirare la merce, risponde: «Sì sì vengo al centro tu mi dici dove devo venire e io vengo … ok?».
E i guadagni erano altissimi. Sui conti correnti intestati ad Atanasov, in pochi mesi erano stati versati dalla Spagna 710 mila euro, con bonifici che non superavano mai i 10mila euro (limite oltre il quale gli istituti bancari spagnoli hanno l’obbligo di dover dare comunicazione alle autorità finanziarie). Un mercato, quello europeo, che fruttava parecchi soldi, visto che in soli due anni l’asse Sofia-Milano aveva accumulato un gruzzolo di 50 milioni di euro.
In effetti, i consumatori di cocaina nel vecchio continente non mancano. In base al rapporto Onu del 2011 sul crimine e la droga, le persone che hanno fatto uso di cocaina almeno una volta nel corso dell’anno variano dai 4,3 ai 4,8 milioni. Due terzi di questi consumatori vivono tra Regno Unito, Spagna e Italia. Che, con Germania e Francia, rappresentano l’80% del totale del consumo europeo di cocaina. Dall’altra parte, i sequestri delle forze dell’ordine sono molto cresciuti negli ultimi anni. Ma nonostante solo nel 2009 siano state sequestrate quasi 8 tonnellate di cocaina, secondo i dati dell’Onu le quantità prelevate dagli agenti rappresentano solo il 15-16% del traffico totale.