Ecco perché le teorie del complotto sono una boiata pazzesca

Ecco perché le teorie del complotto sono una boiata pazzesca

La teoria dei complotti propone la spiegazione di una serie di eventi attribuendo la causa di quel che accade al piano di un gruppo di persone potenti che agiscono in gran segreto. Perciò – in campo economico – gli speculatori – la combinazione di quelli che guadagnano dalle crisi – tramano contro il debito pubblico italiano, contro l’euro, e via dicendo. Nella discussione sulle cospirazioni Popper (The Open Society and its Enemies, da pagina 94) non nega l’esistenza delle stesse, ma ne contesta la facoltà di funzionare. Secondo la teoria cospiratoria della società, infatti, non solo si hanno “le trame”, ma queste addirittura hanno successo. Il mondo però non va in questo modo, perché non esistono gli orologiai perfetti, che non sbagliano mai un colpo.

Non solo perché il futuro è imprevedibile, ma anche perché i cospiratori debbono superare dei banali problemi di “composizione” dei propri interessi. Per esempio c’è chi crede che ci sia una cospirazione (un “agir comune”) degli statunitensi e dei cinesi per mettere in crisi l’Europa dell’euro. Sembra ovvio. Eliminare il terzo incomodo e spartirsi i mondo. Le grandi imprese statunitensi però guadagnano molto (circa un quinto degli utili delle imprese che fanno parte dello Standard & Poor’s 500) in Europa. Perché mai dovrebbero volerne la crisi? I cinesi esportano molto in Europa e poi vorrebbero diversificare le proprie riserve valutarie avendo anche degli euro e non solo dei dollari. Perché mai dovrebbero volerne la crisi? I complottisti statunitensi avrebbero perciò contro le multinazionali industriali, e i complottisti cinesi la loro industria esportatrice e la banca centrale. Il complotto, alla fine, chi include e chi esclude?

Appena si entra nel merito (al di là della critica sull’impossibilità di prevedere il futuro) la Teoria del Complotto si mostra fragile. Si prendano, per esempio, le denunce di speculazione nel campo petrolifero. Esse non hanno senso economico. Basta studiare il meccanismo del petrolio per capire perché.

Quando il prezzo del petrolio era arrivato a 150 dollari nel 2008, secondo molti doveva arrivare fino a 200 dollari. Poi, invece, nel 2009 è andato sotto i 50 dollari. Quando galoppava verso i 150 dollari si affermava che era la speculazione a spingere il prezzo così in alto. La speculazione, invece, non aveva ruolo, perché le scorte di petrolio non erano cresciute in quel periodo. “Speculare” vuole dire che tolgo dal mercato un bene che tutti vogliono, lo metto in magazzino, e poi lo tiro fuori quando il prezzo è salito. Nel periodo in cui il petrolio, che ho tolto dal mercato, manca, ecco che i suoi prezzi salgono, perché la domanda preme. Proprio come facevano gli speculatori con la farina durante le guerre. Il prezzo del petrolio, invece, può passare in poco tempo da 150 a 50 dollari e tornare a 100 dollari per ragioni squisitamente economiche e politiche, senza bisogno di evocare variabili esterne come la speculazione.

Il ragionamento che spiega la grande variabilità dei prezzi del petrolio è tratto da un lavoro, del lontano 1980, di due economisti, J. Cremer e D. Salehi-Isfahani.

La premessa è questa. Abbiamo una risorsa che alla fine si esaurisce, controllata dai governi, con la spesa pubblica che si finanzia con i proventi petroliferi. I paesi petroliferi hanno l’obiettivo di avere il massimo di introiti. Da qui parte il ragionamento. I paesi petroliferi espandono l’offerta fino al punto in cui hanno ottenuto il reddito necessario per finanziare la spesa pubblica. Che questa si riversi nella costruzione di ospedali per bambini poveri oppure nel mantenimento di migliaia di principi perditempo non rileva. Ottenuto questo reddito, se il prezzo del petrolio sale ancora, i paesi petroliferi riducono la produzione. A loro, infatti, conviene non sprecare mai una risorsa non rinnovabile. Dunque “investono” tenendo il petrolio sotto terra. Riducono la produzione, e perciò, con una domanda in ascesa, i prezzi esplodono. Esattamente quello che è avvenuto nel 2008.

Dopo che il prezzo del petrolio è diventato molto alto, la domanda si riduce, perché la gente usa meno l’auto. Se poi, come è accaduto nel 2009, si entra in recessione, la domanda si riduce molto, oltre la naturale flessione dovuta all’alto prezzo alla pompa per le automobili (l’effetto è massimo negli Stati Uniti dove le accise sono modeste, e minimo in Europa dove sono molto alte). Si aveva all’inizio, con una gran crescita economica, una domanda superiore all’offerta, ma poi, arrivata la recessione, si ha un’offerta superiore alla domanda, ed i prezzi cadono.

In maniera più formale. I prezzi sono instabili nel tratto in cui l’offerta con il tempo si è ridotta, perché sono stati raggiunti gli obiettivi di bilancio pubblico dei paesi petroliferi, ma la domanda è ancora rigida. I prezzi esplodono. Dopo un pò il prezzo cade, ma l’offerta di petrolio è ancora rigida, e quindi l’offerta è maggiore della domanda. I prezzi crollano.

Può quindi accadere che il prezzo del barile vada sotto il prezzo che paga tutta la spesa pubblica. Ecco allora che i paesi petroliferi hanno un gran problema. Avevano la spesa pubblica desiderata con un prezzo del petrolio più alto. Nel caso dei sauditi oggi la loro spesa pubblica è aumentata anche per comprare il consenso dei sudditi dopo che è esplosa la “primavera araba”.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il pareggio del bilancio pubblico in Arabia Saudita si ha con 80 dollari al barile. Il pareggio si aveva con 50 dollari pochi anni fa, e con 25 dieci anni fa. Come si vede, l’espansione della spesa pubblica – al fine di ottenere il consenso dei sudditi in un paese ad alta natalità – ha quadruplicato il fabbisogno finanziario. Fabbisogno che è ottenibile solo con un prezzo del petrolio elevato e stabile. Perciò, alla fine, se la domanda salirà, la produzione saudita sarà ferma. Se scenderà, sarà tagliata.

La speculazione nei mutamenti direzionali del prezzo del petrolio ha un ruolo marginale. Si ha speculazione quando un prodotto per il quale la domanda è rigida (ossia è indipendente dal prezzo) è stipato nel magazzino per farlo salire di prezzo. Proprio come avviene durante le guerre con la farina.

Vale la relazione: immagazzina se il prezzo corrente è inferiore a quello futuro meno il costo del magazzino, Vendi se il prezzo corrente è maggiore di quello futuro meno il costo del magazzino. L’offerta di magazzino nel caso del petrolio è rigida. Il costo dei magazzini aumenta, man mano che si riempiono. Non ci sono, infatti, abbastanza navi a disposizione in un arco di tempo breve per stipare il petrolio, e dunque dopo un pò aumentano i noli. Diventa perciò talmente costoso continuare a immagazzinare che il petrolio è venduto. La sua vendita fa cadere il prezzo.
 

La copertina del libro di Giorgio Arfaras da cui è tratto lo stralcio sopra riportato e che verrà presentato il 27 giugno a Milano al Cubo di via della Moscova 28. Saranno presenti l’autore e il nostro Fabrizio Goria. 

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter