Parliamo con Vincenzo Petrini, ordinario di scienza delle costruzioni al Politecnico di Milano e autore della prima mappatura sismica italiana all’inizio degli anni Ottanta, dopo il terremoto dell’Irpinia. «Immaginiamo la pianura Padana come una tovaglia: se spostiamo i due estremi l’uno verso l’altro si formano delle pieghe, ma se la tovaglia fosse rigida quel tessuto si romperebbe». I due lembi della tovaglia, in Emilia Romagna e nella Lombardia meridionale, sono l’Appennino da una parte e la pianura Padana dall’altra. La catena montuosa, spiega Petrini, «si sta spostando verso Nord, comprimendo sulla valle». È questa compressione che «provoca le deformazioni nel sottosuolo roccioso che, una volta arrivato al limite di rottura, genera le forti scosse sismiche e la liquefazione del suolo in alcune aree».
Si tratta tuttavia di un «massimo storico per quell’area», prosegue Petrini. In base alla mappatura sismica dell’Italia, la pianura Padana è considerata zona 2 o 3, cioè a media pericolosità sismica. Le zone a più alto rischio sono invece «la Sicilia orientale, l’Appennino meridionale e centrale e il Friuli», spiega. Proprio in questi giorni di allarme per l’Emilia Romagna, a cavallo tra la Calabria e la Basilicata, si stanno susseguendo numerose scosse con epicentro lungo la catena montuosa del Pollino. «C’è una alta probabilità che in quella zona si verificherà un terremoto violento», dice Petrini, «ma non si possono fare previsioni sui sismi: è possibile che ci sarà domani o tra cento anni».
È importante però, precisa l’ex direttore dell’Istituto di ricerca sul rischio sismico del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), «fare una distinzione tra la pericolosità sismica, cioè la probabilità dell’insorgenza dei terremoti, e il rischio sismico, che riguarda invece la qualità delle costruzioni e quindi i rischi per la popolazione». In Italia, rispetto agli altri Paesi europei, a eccezione della Grecia e dell’area dell’ex Jugoslavia, c’è una più alta probabilità che ci siano terremoti. Ma l’aspetto più preoccupante, come spiega Petrini, «è l’alto rischio sismico, vista l’elevata presenza di edifici vulnerabili al terremoto». La normativa antisismica italiana, infatti, è stata aggiornata nelle regioni sisma dopo sisma. E quindi accanto agli edifici costruiti a norma, nelle nostre città ne esistono altri che potrebbero sbriciolarsi alla prima forte scossa. «Nel 1908, dopo il terremoto dello stretto, l’obbligo di costruire edifici antisismici era limitato a Calabria e Sicilia», racconta Petrini, «negli anni Ottanta è stato esteso poi all’Irpinia, e dal 2003, dopo il terremoto del Molise, è stato allargato a tutta la penisola con una ordinanza della protezione civile».
La normativa italiana, quindi, risulta ormai adeguata alla pericolosità del suolo. «Il problema», aggiunge Petrini, «sono gli edifici già esistenti, soprattutto quelli storici, ma non ci sono le risorse per metterli tutti a norma». Nel 1984, insieme al collega Davide Benedetti, Petrini ha messo a punto una scheda di valutazione della vulnerabilità sismica dei fabbricati. «È uno strumento di diagnosi delle costruzioni esistenti, per avere un primo screening della propensione dell’edificio a subire danni in caso di sisma», spiega. «Ma l’intervento necessario varia ovviamente da struttura a struttura». La scheda creata tiene conto di diversi fattori, tra cui l’organizzazione e la natura delle strutture verticali, la posizione dell’edificio, il tipo di fondazioni, la regolarità delle piante e la copertura. Sulla base di questi elementi, l’edificio viene inserito in una classificazione che va da A a D. «In Italia c’è un problema di salvaguardia del patrimonio storico», ribadisce Petrini, «ma non abbiamo i soldi per farlo».
Dopo il terremoto del 29 maggio scorso, però, si sono visti crollare anche edifici non storici. «In Emilia, fino al 2003 era assente qualsiasi norma che obbligasse a costruire edifici con le norme antisismiche, perché l’area era ritenuta a bassa pericolosità sismica», continua Petrini. «È possibile quindi che molti capannoni di costruzione recente siano crollati perché non costruiti secondo le norme attuali, ma in regola con la legislazione passata».
A questo va aggiunta una spiegazione di natura geologica, quella della liquefazione del suolo. La pianura Padana è costituita da sabbia e sedimenti portati dal fiume Po. Durante i terremoti, soprattutto quelli duraturi e di magnitudo superiore al 5, questo tipo di terreno può perde consistenza e passare dallo solido allo stato liquido. «Le particelle di sabbia e acqua», spiega Petrini, «perdono contatto tra loro e l’acqua prevale sulla sabbia fino alla liquefazione». Questa sorta di gelatina, come già era accaduto nel corso del terremoto dell’Irpinia del 1980, crea delle voragini che risucchiano verso il basso il terreno in superficie, provocando il crollo degli edifici. «Anche di quelli in grado di resistere alle scosse sismiche», precisa Petrini. «C’è una famosa fotografia di un terremoto in Giappone», racconta, «che mostra una strada lungo la quale ci sono edifici tutti uguali: alcuni rimangono in piedi, altri vengono ribaltati dalla liquefazione del suolo pur rimanendo integri». É quello che sta accadendo in Emilia Romagna: «Gli edifici diventano come tappi di sughero galleggianti che a un certo punto si capovolgono nell’acqua».