Caro direttore,
ho letto con interesse il suo intervento. Vorrei porgerle allora alcune riflessioni che mi sono sorte dopo la lettura, e che riguardano, il mio essere cattolico, e l’essere cattolico in generale.
Non è facile essere cattolici al giorno d’oggi (ma, forse, il giorno d’oggi non differisce dal passato: storicamente la Chiesa non ha sempre dato una encomiabile immagine di sé). Non è semplice essere «nel mondo, ma non del mondo». Non è scontato riuscire a rimanere fedeli al messaggio di Gesù Cristo, quando tutto ciò che ci circonda ci porta altrove.
Eppure, questa deve essere la lotta quotidiana del cristiano-cattolico. Chi crede ha una fede che lo porta (dovrebbe portarlo) a dare determinate priorità nella propria vita: la consapevolezza della presenza della Divinità nella quotidianità impone uno stravolgimento dei “valori” che nel mondo vanno per la maggiore. L’amore per il prossimo (per il nemico!), il perdono per le offese ed ingiustizie subite, l’aiuto per le persone che hanno bisogno, la frequentazione dei sacramenti dovrebbero portare il cristiano ad essere immediatamente riconoscibile nel mondo. Non perché il cristiano sia un “superuomo”, ma perché dovrebbe essere un “vero uomo”. Se Dio ci ha fatti a Sua immagine e somiglianza, cercare di imitarlo (tramite Cristo: «siate perfetti come perfetto è il Padre vostro») vuol dire cercare di avvicinarsi alla vera natura umana.
E, infatti, è così: quando si incontra un santo, lo si riconosce subito. Non è necessaria una causa di beatificazione; non sono necessari i miracoli per intercessione: tutto ciò serve (e correttamente, direi) per una conferma formale, ufficiale, della santità. Ma il santo è tale prima di tutto ciò (un giurista potrebbe dire che la dichiarazione di santità è una sentenza dichiarativa, non costitutiva). Il santo lo si riconosce dallo sguardo, dalle parole, dal comportamento, dal sorriso….
Ebbene, il problema è proprio qui: tutti i cristiani dovrebbero (cercare di) essere santi, perché ne hanno la possibilità; anzi, ne hanno il dovere: a loro è stata indicata la via (“Io sono la via, la verità e la vita”). Non ci sono scuse. Soprattutto non è una scusa il dire che la natura umana, corrotta dal peccato originale, ci porta altrove. La tentazione è sempre presente; ma l’uomo deve combatterla e vincerla proprio per cercare di avvicinarsi, per quanto possibile, al modello di santità indicato dal Maestro.
Il cristiano, quindi, si distingue non perché fa delle cose diverse; ma perché si comporta (o, dovrebbe comportarsi) in modo diverso, sfuggendo alle tentazioni della natura umana. Il comandante di una nave in tempesta, l’uomo d’affari, la casalinga, il medico – se cristiani – devono “semplicemente” fare il proprio mestiere (salvare la nave e l’equipaggio dalla tempesta; gestire l’impresa; gestire la casa; curare i malati…), ma, forse, lo devono fare “meglio”, non tanto in termini qualitativi, ma con una carica in più, una luce in più, una sensibilità particolare alla persona, una cura del dettaglio, un senso del dovere, un comportamento etico-morale, insomma, quel quid pluris che mostra la vicinanza al Signore.
Purtroppo, questo non sempre accade. Anzi, i recenti episodi assurti agli onori della cronaca sono una conferma che spesso chi più “si dichiara” cristiano (cattolico, nei casi di specie) (che sia il “rappresentante” di un importante movimento, o un alto prelato che frequenta le sale vaticane) molto si lascia attrarre dalla tentazione del peccato (trame di potere, avidità, falsità….). Lungi da me giudicare in concreto chicchessia; ma alcuni comportamenti, se sono moralmente criticabili in chi nemmeno si professa cristiano, lo sono ancor di più se compiuti da chi è cristiano, con una ulteriore aggravante se chi è cattolico “si dichiara” pubblicamente tale.
Perché dichiararsi cattolico, quindi “spendere” (forse impropriamente) il nome di Gesù Cristo nel fare il proprio mestiere, implica un obbligo ulteriore (oltre a quello – che spetta a chiunque – di comportarsi “rettamente”), che è il dovere di dare testimonianza. Testimonianza di una fede e di un incontro (con la Divinità) che, come dicevo sopra, “cambia” l’essere umano; testimonianza di un popolo che deve innanzitutto “fare del bene” (e, per fortuna, molto “bene” viene quotidianamente fatto nel mondo da chi aiuta gli altri nel nome di Dio). Testimonianza di milioni di persone (laici, religiosi, sacerdoti) che, nelle parrocchie, negli ospedali, nei centri di aiuto, nel luogo di lavoro, in casa, insomma: nel mondo, ogni giorno, semplicemente “amano il prossimo” e “parlano con Dio”.
Chi è porporato, chi gestisce la cosa pubblica professandosi cattolico (e avendo ottenuto la posizione “di potere” che occupa in quanto si professa cattolico) si assume questo obbligo di testimonianza all’ennesima potenza. Perché assume un incarico pubblico, visibile da milioni di persone. In questo Gesù è stato molto chiaro: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».
Se il cattolico non è in grado di fare questo (perché debole di fronte alle tentazioni del potere, del denaro, della “vita comoda”), allora – per rispetto dei milioni di cristiani che in silenzio «rendono gloria al Padre che è nei cieli» – è meglio lasciar perdere. E, quindi, il cardinale lasci stare le trame di potere: torni alla preghiera! Il politico lasci stare le vacanze di lusso: torni tra la sua gente!
Purtroppo (o per fortuna) è tutto terribilmente semplice (o molto complicato, a seconda dei punti di vista). Non ci sono scorciatoie: come diceva un Santo, che oggi non va molto di moda, i piedi devono poggiare saldamente per terra (e, quindi, bisogna immergersi nella realtà e fare bene quello che si sta facendo, consapevoli delle proprie capacità, dei propri limiti, del contesto nel quale si vive), ma la testa deve arrivare al cielo (e, quindi, bisogna “guardare le cose di lassù”, come chiave di lettura per dare un senso alla nostra vita).
E questo vale per tutti i cattolici; anche (e, direi, soprattutto) per chi fa politica, per chi gestisce la cosa pubblica, per chi riveste – in senso lato – posizioni di vertice.