«In Siria è ormai in corso una guerra civile». L’annuncio in apparenza scontato – da tempo i media internazionali applicano alla crisi siriana le categorie del conflitto interno – potrebbe in realtà cambiare il corso degli eventi e costringere l’Occidente ad uscire definitivamente dall’ombra. Proprio mentre si intensifica lo scontro verbale tra Stati Uniti e Russia, in merito alla fornitura di armamenti al regime di Assad.
A usare l’espressione “guerra civile” è stato martedì il Capo delle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, Hervé Ladsous, per il quale «il governo di Damasco non ha più il controllo di parti del territorio nazionale». Stizzita la risposta del ministro degli esteri siriano Walid Muallem. «Nel nostro Paese non vi è alcuna guerra civile – ha detto – ma piuttosto un conflitto armato teso a sradicare il terrorismo e a porre fine alle brutalità perpetrate dai gruppi jihadisti».
Dietro alla mera disputa semantica, si nascondono ripercussioni notevoli di carattere politico e militare. Anzitutto per il regime alauita. Per Assad, accettare la definizione di Ladsous vorrebbe dire riconoscere all’opposizione – specie in caso di negoziato – la dignità che spetta a un interlocutore paritario, nonché ammettere l’esistenza all’interno del Paese di effettive sacche di resistenza. Il paradigma della guerra civile inoltre comporta, a livello giuridico, l’applicazione di trattati e convenzioni internazionali (Ginevra e affini) che costringerebbero il regime baathista a limitare – almeno in linea teorica – il raggio d’azione dell’esercito.
Un’evoluzione in questo senso della crisi – da ribellione interna a guerra civile – obbliga però anche l’Occidente (Stati Uniti in testa) e le Nazioni Unite a rivedere il loro approccio. A partire dal piano di pace in sei punti elaborato da Kofi Annan e dalla derivante missione degli osservatori Onu. Voluta dal Consiglio di Sicurezza per certificare un cessate il fuoco che di fatto non c’è mai stato, la presenza degli inviati internazionali rischia di apparire clamorosamente anacronistica.
Il paradosso è stato evidenziato martedì dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, quando ha ribadito che «se Assad non fermerà la violenza entro metà luglio, le Nazioni Unite non potranno far altro che ritirare gli osservatori». Intanto sul terreno i combattimenti proseguono senza requie. Al termine di otto giorni di furiosi bombardamenti, mercoledì le truppe di Damasco hanno riconquistato la città di Haffa, caduta in precedenza nelle mani dei ribelli. Avvenuta a soli trenta chilometri da Kardaha, il villaggio da cui proviene la famiglia Assad, «la liberazione di Haffa» rappresenta per il regime una vittoria dal forte valore simbolico.
Per gli americani però a far pendere la bilancia delle ostilità dalla parte baathista sarebbe l’acquisizione di nuovi armamenti di produzione russa. «Nonostante le nostre rimostranze, Mosca continua a vendere armi alla Siria, compresi gli elicotteri da combattimento che stanno causando l’ulteriore escalation del conflitto», ha protestato la Clinton. Da settimane si rincorrono voci per cui, oltre alle mitragliatrici, gli helos utilizzati dall’esercito siriano avrebbero a disposizione dei missili e le dichiarazioni del Segretario di Stato sembravano confermare proprio tali indiscrezioni.
Il problema era stabilire se si trattasse di nuovi esemplari o del potenziamento di vecchi modelli. Gli analisti del Pentagono sembrano adesso avvalorare la seconda ipotesi. Negli ultimi giorni Mosca avrebbe consegnato a Damasco MI-24, MI-25 e MI-17 acquistati da Assad negli anni ’80 e ’90 e che erano stati spediti in Russia per una manutenzione di routine realizzata dalla Rosoboronexport, il monopolista statale dell’industria bellica.
Immediata la replica del ministro degli esteri Sergey Lavrov che ha respinto ogni addebito, tacciando gli americani di ipocrisia. «A differenza di quanto accade tra Stati Uniti e altri Paesi del Golfo, non abbiamo fornito alla Siria armi che possono essere usate contro manifestanti pacifici». Chiaro il riferimento al Bahrein – a maggio Obama ha promesso alla famiglia regnante degli Al-Khalifa armamenti per un valore di 53 milioni di dollari.
Peraltro sulla questione degli elicotteri russi il Pentagono è al centro di un palese conflitto di interessi. Il Dipartimento della Difesa ha appena firmato proprio con la Rosoboronexport un contratto che prevede la fornitura di MI-17 all’esercito afghano, in cambio di provvigioni che potrebbero raggiungere il miliardo di dollari.
Sacrificare un accordo così strutturato sull’altare della questione morale significherebbe rivedere il timetable del ritiro dall’Afghanistan. Forse anche per questo sulle colonne del New York Times un anonimo funzionario del Pentagono ha ammesso oggi che la Clinton si è servita di «un artificio retorico per premere sulla Russia» affinché abbandoni Assad al suo destino.
Una strategia che gli Stati Uniti impiegano da mesi, ma che non sembra scalfire la posizione di Putin. Anzi, per il Cremlino il mantenimento dello status quo siriano è divenuto ormai un obiettivo primario. E non solo perché Assad è un ottimo cliente dell’industria bellica nazionale o perché il porto di Tartus permette a Mosca di accedere al Mediterraneo.
A preoccupare Putin è soprattutto l’esperienza libica. Per il presidente la responsabilità di proteggere – il principio che regola gli interventi militari di natura umanitaria – è una formula del tutto strumentale che, come avvenuto lo scorso anno in Libia, servirebbe soltanto a verniciare di filantropia il perseguimento degli interessi americani. Un precedente da scongiurare con ogni mezzo. O almeno da far pagare assai caro agli Stati Uniti. Se l’America vuole eliminare il regime di Assad, e ribaltare così i rapporti di forza mediorientali, che intervenga direttamente sul terreno. Certo Obama rischierebbe di impantanarsi nella (appena) proclamata guerra civile siriana. Ma questo a Putin non dispiacerebbe affatto.