L’omicidio di Teresa Butz nella villetta rossa di South Park

L'omicidio di Teresa Butz nella villetta rossa di South Park

Il pubblico ministero voleva sapere delle finestre: nella casa in South Rose Street, la casa in cui quella notte si era svegliata trovandosi davanti un uomo con un coltello, quali finestre avevano tende che impedivano la vista da fuori, e quali no? Lei ha risposto alle domande del pm indicando la planimetria della villetta di South Park in cui viveva con la sua compagna, Teresa Butz, amministratrice condominiale di Seattle. Quando ci abitavano insieme, la villetta era rossa, un po’ fatiscente, molto amata e piena di tracce delle loro vite, tipica del quartiere. Posata su un cavalletto accanto al banco dei testimoni, la planimetria era la prova n. 2 presentata dall’accusa. Servendosi di un puntatore laser rosso, lei ha spiegato al pm e alla giuria: queste finestre avevano tende che impedivano la vista. Davanti a queste altre c’era solo una stoffa sottile. E attraverso questa stoffa sottile, di notte, le vostre sagome erano visibili? Probabilmente. Non poteva dirlo con certezza. Nel tempo in cui lei e la sua compagna erano convissute lì, ha sottolineato, «non mi capitava spesso di guardare dentro casa mia da fuori».

Nell’aula, per un attimo tutti hanno riso: una piccola risata di sollievo dalla tensione, perché avevano davanti una donna che testimoniava del proprio stupro, e dello stupro e omicidio della sua compagna, che tuttavia riusciva a sorridere del tono delle domande, del vicolo cieco percettivo a cui conducevano. Eppure sembrava capire come mai la gente avesse bisogno di sentire le sue risposte. Ciò che era accaduto a lei e a Teresa Butz in quella casa, all’alba del 9 luglio 2009, era di difficile comprensione. I membri della giuria, per poter penetrare nella realtà di ciò che era successo, dovevano prima immaginare come avesse fatto quell’uomo a scegliere quelle donne in particolare. Così, perlomeno, la vicenda avrebbe acquisito una sorta di dimensione narrativa.

Forse le aveva spiate, dalle finestre, decidendo che sarebbero state loro le sue vittime. Una ragazza di South Park, Diana Ramirez, aveva già detto al giudice che quell’uomo aveva un’aria nota. «Gli occhi», aveva detto Ramirez. Il pm aveva inoltre fatto notare che il giardino delle due donne, il giardino in cui amavano sedersi di sera quando faceva caldo, a guardare il cielo sopra il centro ricreativo di South Park e gli alberi del grande parco che lo circondava, era recintato solo in parte. Per quell’uomo sarebbe stato facile avvicinarsi a casa loro di notte, inosservato, attraverso la vegetazione.

Forse le aveva notate nel quartiere di giorno, entrambe attraenti, entrambe più basse di lui, magari mentre lavoravano nel giardino davanti a casa o partecipavano a qualche festival cittadino, o andavano e venivano dal loro bar preferito, il Loretta’s. Era un luglio insolitamente caldo. A Teresa Butz, un vulcano di donna dai capelli castani, cresciuta nelle estati ben più calde di St. Louis, sembrava assurdo farsi installare l’aria condizionata a Seattle, aveva dichiarato qualcuno alla corte. Forse quell’uomo aveva notato che le due donne di notte tenevano alcune finestre aperte.

Forse aveva capito che si amavano, lo aveva visto in controluce o su un marciapiede, un amore che quell’estate aveva cominciato a esplodere, rendendole inseparabili, un amore cresciuto al punto da volerlo ufficializzare con una cerimonia l’autunno successivo. Forse si era reso conto di poter usare quell’amore contro le due donne, usarlo senza pietà per controllarle in casa loro, soggiogandole con la minaccia di uccidere l’altra.

Loro erano due, lui uno solo. Ma forse si è reso conto che, in un certo senso, anche loro erano una cosa sola. Lui oltre il metro e ottanta, 75 chili, muscoloso. Girava sempre con due coltelli. Forse aveva pensato, guardando dentro le loro finestre, che in caso di scontro fisico i numeri avrebbero giocato a suo favore. Lei, seduta sul banco dei testimoni, capiva perfettamente come mai le persone avessero bisogno di visualizzare le sue tende. Ma non era di quello che la sopravvissuta alle violenze sessuali e all’omicidio di South Park era venuta a parlare. Le dinamiche psicologiche e materiali che avevano portato all’aggressione erano ormai irrilevanti, oltre che insondabili, perlomeno in modo soddisfacente.

Se ora sedeva sul banco dei testimoni di un’aula affollata e caldissima all’ottavo piano del tribunale della contea di King, in jeans e camicetta nera a maniche corte, le mani giunte sulle ginocchia, davanti a una giuria di sconosciuti che prendeva appunti, a una folla di parenti e amici ed estranei e giornalisti a documentare il tutto, era per dire: mi è successo questo. Dovete ascoltare. È successo a noi. Dovete capire chi abbiamo perduto. Ascoltare che cosa ha fatto quell’uomo. Dovete sapere come Teresa gli ha tenuto testa. Cos’era che amavo di lei. Dovete capire che cosa quell’uomo ci ha portato via. Ecco cos’è successo.

La donna, che oggi ha 38 anni – rispettando la sua volontà, non ne pubblichiamo il nome – ha inchiodato l’aula con una franchezza emotiva ipnotica. Piangendo, ogni tanto. Stringendo i denti e tirando dritta anche quando diventava sfiancante rivivere quel calvario durato circa un’ora e mezza, ma che per essere ricostruito in tribunale ha richiesto quasi sei ore nel corso di due giorni. Ha espresso rimpianto e terrore e umiliazione e dolore e rabbia. Ha mostrato di rendersi conto di quanto tutta la vicenda fosse orribile, davvero orribile e assurda, e accolto di buon grado ogni occasione che si presentava per sorridere di se stessa, delle cose bizzarre che la sua compagna assassinata aveva fatto in vita, di una domanda goffa e involontariamente scortese rivoltale dal pm a proposito di una visita alla Weight Watchers fatta da lei e dalla sua compagna l’ultima mattina trascorsa insieme, con l’intenzione di rimettersi in forma prima della cerimonia in autunno.

Il pubblico ministero le ha chiesto qualcosa tipo: «Com’è andata alla Weight Watchers?». E lei, senza perdere un colpo, senza imbarazzi, ha indicato il proprio corpo con un gesto delle mani, muovendole dall’alto in basso, e ha risposto: «Be’…». Come dire: prego, guardi pure. Non c’è problema. Rida pure di questa situazione imbarazzante, come ora in aula stanno facendo tutti. Ridete, se è di questo che avete bisogno. Va bene. Sul serio. Guardatemi. E grazie di voler guardare, perché più avanti, durante questo processo, il pubblico ministero si avvicinerà al banco dei testimoni e mi scosterà i capelli lisci e neri dal collo per consentirmi di mostrare più agevolmente, a tutti voi che guardate, le quattro cicatrici da taglio che dal mio orecchio sinistro scendono verso la gola, lasciate da quell’uomo e dal suo coltello. Io non ho paura. Non ho niente da nascondere. Non più. Non quando in gioco c’è qualcosa di importante come la possibilità di sbattere quell’uomo in galera.

Lei ha raccontato la perfetta normalità dei loro ultimi giorni insieme. Il venerdì prima dell’aggressione aveva fatto tardi in ufficio e Teresa l’aveva chiamata impaziente: «Quando torni?». Tornata, aveva visto Teresa seduta su un divanetto rosso nella loro casetta rossa di South Park, quella casa di cui Teresa – la prima volta che si erano incontrate, per puro caso, in una giornata di lavoro qualunque del 2007 – aveva parlato praticamente prima di tutto il resto, dicendo che c’erano un sacco di erbacce da togliere. Che non era il posto più bello del mondo, «ma a lei piaceva tantissimo».

Quel venerdì, Teresa era seduta sul divano nella casa rossa e, ha ricordato la sua compagna, «in mano aveva carta e penna». Era tutta eccitata. Aveva fatto il punto sulla loro situazione economica. I soldi necessari per la cerimonia di unione c’erano. Decisero di fare due passi per il quartiere e andare al Loretta’s. Il secondo tavolino dall’ingresso era sempre il loro. Ogni volta, per qualche strana ragione, lo trovavano libero. Teresa ordinò un bourbon con acqua, la sua compagna un margarita. Mangiarono la bistecca della casa e un’insalata. Erano di ottimo umore. «Quella sera abbiamo parlato come non facevamo da tanto tempo», ha ricordato la compagna di Teresa sul banco dei testimoni. «Lei da sempre sognava di… Credo che avesse sempre voluto mettersi in proprio. Sognava di aprire un caffè con annesso cinema. L’avrebbe chiamato Reel Cafè, il caffè della pellicola. Ne parlavamo: come sarebbe andato, cosa avrebbe comportato… Avevamo deciso che tutte e due avremmo continuato a lavorare in azienda il tempo necessario a realizzare il progetto, dopodiché lei si sarebbe dedicata a quello». Parlarono di figli. Teresa, che aveva 39 anni e delle due non era mai stata quella che si pensava avrebbe portato in grembo un eventuale figlio, annunciò: «Magari posso averlo io». «Tutto questo è successo al Loretta’s?» ha chiesto il pm. Lei ha riso. Ha riso anche il pubblico in aula. In effetti sembravano un sacco di cose. «Sì», ha risposto lei. «Siamo rimaste lì qualche ora… Era il nostro posto».

Tornarono a casa a piedi, attraversando South Park, tra i tenui coni di luce dei lampioni e lunghi tratti bui. Per strada, Teresa si fermò in un negozietto a prendere una birra della sua marca preferita, Bud Light. Non fumava regolarmente, ma moriva dalla voglia di una sigaretta. Ne avrebbe comprato una sola, disse. Poi andarono a sedersi nel giardino dietro la casetta rossa, a guardare gli alberi, il centro ricreativo di quartiere, il cielo. «Quella sera faceva caldissimo», ha ricordato la compagna di Teresa sul banco dei testimoni. «Trenta gradi, se non di più». Bevettero. Alla fine Teresa di sigarette ne aveva comprate tre o quattro, e le fumò tutte. «Era una di quelle sere un po’ speciali», ha spiegato la sua compagna. «Ricordo che ho pensato: in questo momento la mia vita non sarà perfetta, ma sono così felice».

Il giorno dopo era sabato 18 luglio 2009. Weight Watchers al mattino. Poi un impegno divertente in cui le aveva coinvolte un’amica: un tour in autobus a due piani per le birrerie artigianali di South Park. Sull’autobus, Teresa Butz giocò a fare la barista. Un’amica le fotografò insieme. «Ricordo che c’era un bel sole», ha raccontato la sua compagna. «Faceva un gran caldo. Ogni tanto mi giravo verso Teresa e la vedevo con la testa alzata. Lei il sole lo adorava, e quel giorno era come in paradiso». Nel tardo pomeriggio fecero un salto da una sarta che stava preparando l’abito della compagna di Teresa per la cerimonia in autunno. La sarta la avvolse in un modello del vestito confezionato con della mussola. «Mi sono sentita bellissima», ricorda lei. Quella sera erano invitate a una festa in casa di un’amica a Woodinville. Sarebbe stato una specie di pigiama party, di modo che gli ospiti non dovessero preoccuparsi di dover guidare in piena notte. Ma erano entrambe stanche, e decisero di tornarsene a South Park.

Comprarono bistecche e patate – «il suo piatto preferito» – e mentre Teresa cuoceva la carne sul grill in giardino, in casa la sua compagna preparava il resto della cena. Ricevettero una telefonata della madre di Teresa. «Una telefonata splendida, piena di affetto, con quella madre che lei adorava», ha ricordato la sua compagna. Venne fuori che la madre di Teresa, che da cattolica aveva qualche riserva sulla cerimonia, alla fine ci sarebbe andata. «Può darsi che non fossero d’accordo con la nostra scelta», ha spiegato la compagna di Teresa sul banco dei testimoni, riferendosi ad alcuni parenti della sua partner, «ma sul fatto che le volessero bene non c’erano dubbi, così come sul fatto che ne volessero a me».

Cena. Poi un film che attendeva in casa da un pezzo, un musical che le fece piangere entrambe. Si era fatta mezzanotte. Teresa controllò ripetutamente che tutte le porte fossero chiuse a chiave (come sempre), si lavò i denti più volte, intervallandole con il filo interdentale (come sempre), quindi si sistemò sul lato sinistro del letto (come sempre), accanto al suo bicchiere d’acqua e al suo burro di cacao. La sua compagna si sistemò a destra (come sempre). Si diedero la buonanotte. «Mi sono allungata verso Teresa e le ho detto “Ti amo tantissimo”», ha raccontato la compagna. «Lei mi ha risposto: “Lo so”. Poi basta. Ci siamo messe a dormire».

La compagna di Teresa non ricorda per quanto dormirono. «Mi sono svegliata di colpo», ha spiegato in aula. «In camera c’era un uomo, nudo, in piedi davanti al letto, con un coltello nella mano destra… Mi ha subito puntato il coltello sulla gola». Rimase senza fiato. Pensò: sto sognando. «A quel punto», ha raccontato in tribunale, «sono riuscita soltanto a elaborare il pensiero che in casa c’era qualcuno, e che sarebbe successo qualcosa». Non capì immediatamente se anche Teresa si fosse svegliata, ma non voleva staccare gli occhi dall’uomo per scoprirlo. «Lui ha detto: “Zitta! Sta’ zitta!”, perché io dovevo aver fatto qualche rumore. E poi: “Non voglio farvi male. Voglio solo scopare”». Ordinò alle due donne di spogliarsi. Teresa era sveglia. La sua compagna ricorda di averla sentita dire: «La prego, ho il ciclo». La risposta dell’uomo: «Non importa». «Poi le ha tolto le mutandine, e anche la maglietta, e si è messo su di lei», ha raccontato al giudice la compagna di Teresa. «Ha cominciato a violentarla».

Per tutto il tempo, l’uomo ha sempre tenuto in mano il coltello, pronto. (L’accusa ha portato in aula il presunto coltello come prova. Dalla punta al manico, era lungo oltre 30 centimetri). «Sono rimasta immobile quanto più possibile per un essere umano», ha detto la compagna di Teresa. «A un certo punto credo di aver provato ad avvicinare un braccio a lei, perché sentisse che c’ero. Ero terrorizzata. Pensavo che con quel coltello ci avrebbe uccise. Me l’aveva già puntato alla gola. Era già tutto chiaro, come dire… lo sentivi nell’aria. Se non fai quello che ti dice, lui l’ammazza. Non eravamo preoccupate soltanto per la nostra vita. Mentre me ne stavo lì, immobile, ricordo che ho pensato: “Se ubbidisco, non le farà del male”».

«Dopo un po’», ha dichiarato sul banco dei testimoni la compagna di Teresa, «si è spostato da lei e ha detto a me di spogliarmi. L’ho fatto. Poi ha detto a Teresa: “Leccale la fica”. E lei si è messa in posizione, però non l’ha fatto. Ha solo finto. Tra me e me l’ho ringraziata. Ma ricordo che la sentivo, sentivo la sua presenza vicino a me. Poi l’ho visto avvicinarsi alla cassettiera sotto la finestra. Una a una, ha chiuso tutte e tre le finestre».
A quel punto, anche in tribunale è sembrato che le finestre venissero chiuse. Tutti erano immobili, quasi sperassero che in quel modo l’uomo non gli avrebbe fatto del male. 

Violentò anche la compagna di Teresa. «Sono rimasta stesa lì, rigida, pensando: “Lascialo finire e poi se ne andrà. Andrà via. Non fare sciocchezze”». Ha raccontato che odore aveva («di pulito»), com’era fatto il suo corpo («muscoloso»), di che razza era («nero»), quanti peli aveva sul corpo («pochissimi»), il volume della sua voce («basso»), a che velocità parlava («media») e in che modo («A parte la parola “fica” e “scopare”, più volgari, per il resto si esprimeva come uno molto intelligente»). Ha ricordato di aver sentito Teresa cercare con la mano il suo braccio, e dire: «Mi dispiace». «Poi», ha raccontato la compagna, «lui mi ha detto di mettermi in ginocchio sul letto». Il pubblico ministero le ha chiesto: «Perché?». «Perché voleva… Cioè, l’ha fatto. Mi ha infilato il pene nell’ano».

Teresa, nel frattempo, aveva cominciato a pregare ad alta voce. «Signore, ti prego, aiutaci. Padre nostro che sei nei cieli…» Anche la sua compagna si mise a pregare: «Dio, ti prego, non farci morire». Poi «lui si è fermato e si è staccato. Ha detto a Teresa di mettersi in ginocchio per terra davanti a lui… L’ho sentito dire: “Ficcatelo in gola”, e poi Teresa che faceva dei versi come se stesse soffocando». La compagna di Teresa era convinta che, una volta finito quell’incubo, l’uomo se ne sarebbe andato, e allora avrebbero chiamato qualcuno in loro aiuto. A un certo punto lui smise di costringere Teresa al sesso orale, e le due donne si rannicchiarono di nuovo sul letto, la schiena contro la testiera, stringendosi le ginocchia al petto con le braccia. Teresa disse all’uomo che le loro borse erano in cucina, che di soldi non ce n’erano molti ma poteva prendere tutto quello che voleva.

Il testo continua su D de La Repubblica

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