Avere così tanti soldi da non sapere come spenderli è il sogno di tutti. Per la Mongolia invece è un enorme problema. Dopo avere attirato gli investitori, dovrà cercare un difficile equilibrio tra la necessità di proteggere le proprie riserve strategiche di materie prime, senza rendere ostile l’ambiente economico, e gestire al contempo un afflusso di capitali stranieri che farà raddoppiare il prodotto interno lordo nei prossimi due o tre anni.
Una vera e propria “bonanza” con cui il governo di Ulan Bator sarà costretto a fare i conti imparando a indirizzare i capitali derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie concentrandosi su altri settori per ammodernare un paese nel complesso arretrato, diviso tra steppa e vaste aree desertiche, con una bassa densità di popolazione. È un’opportunità per gli stranieri che non investono in materie prime e per i vertici politici che avranno l’occasione di portare stabilità in un’economia che prima della crisi mondiale era estremamente volatile e che dal 2009 – anno di pesante arretramento macroeconomico – è la terza al mondo per rapidità di crescita del pil: 17,3 per cento nel 2011. Non necessariamente un bene visto che sia Banca mondiale che Fondo monetario internazionale avevano avvertito del rischio surriscaldamento dell’economia e di future spinte inflazionistiche.
L’abbondanza di risorse minerarie (carbone, rame, tungsteno, uranio, stagno, nickel, zinco, oro, argento, ferro ecc.) ha portato grandi società come le australiane Rio Tinto, Anglo-Australian, l’americana Peabody Energy, la canadese Ivanhoe Mines e la cinese Shenhua a spartirsi territorio e contratti di estrazione. Si stima che 10 miniere nazionali racchiudano un potenziale da 2.750 miliardi di dollari, cifre che hanno fatto guadagnare alla Mongolia il soprannome di Qatar dell’Asia. Da non trascurare anche la presenza di terre rare, quegli elementi necessari alla produzione di componenti per l’alta tecnologia civile e militare di cui la Cina è monopolista globale.
Un progetto in corso d’opera è quello dell’australiana Black Ridge Mining che a marzo ha annunciato l’avvio dell’esplorazione di un giacimento alcalinico 80 chilometri a est della capitale. Già dal 2010 il Giappone si è avvantaggiato su questo fronte nel tentativo di ridurre la propria dipendenza da Pechino, avviando le trattative per un accordo di libero scambio commerciale più generico ma strategico all’inizio di quest’anno.
Ulan Bator. Foto gentilmente concessa da Antonio Sottile (Coccinelle)
In questo senso le elezioni del 28 giugno sono una tappa importante perché rappresentano un punto critico per i colossi del settore minerario. Dipenderà infatti dal risultato alle urne la ridiscussione di una legge sugli investimenti esteri, che rappresentano il 62 per cento del pil nazionale, arrivati a 8 miliardi di dollari solo l’anno scorso, per decidere se le restrizioni ora imposte possono essere sciolte.
Ora infatti è necessaria l’approvazione sia del governo che del parlamento per dare il nulla osta a investimenti superiori ai 75 milioni di dollari o che possono permettere il controllo del 49% di imprese considerate strategiche (minerario, industria, telecomunicazioni). Mossa da leggere in chiave anti-cinese dopo che la Chalco aveva dimostrato interesse per un giacimento di carbone nel deserto del Gobi, a sud del Paese.
Il presidente Tsakhia Elbegdor (Partito democratico) in un’intervista al Financial Times ha dichiarato di essere pronto a ricevere suggerimenti per migliorarla, ma che si dovrà al contempo evitare il rischio di corruzione vista l’elevata circolazione di denaro e i grossi interessi in gioco. Le imprese dell’estrazione temono peraltro un periodo di incertezza dopo le elezioni parlamentari perché già nel 2008 la tornata elettorale senza un chiaro vincitore aveva fatto esplodere le proteste nella capitale.
Un’emergenza rientrata solo grazie ad un accordo tra il Partito del popolo mongolo (Ppm) di stampo comunista, oggi al governo, e il Pd. L’anno successivo le elezioni presidenziali sono andate al Pd, e per questo con una vittoria netta a fine giugno si potrebbe colmare questo “mismatch”. A dire il vero, sussurrano fonti vicine al Pd, quattro anni fa il partito non aveva l’esperienza necessaria a livello di quadri e dirigenza per assumere un incarico governativo.
Il mese scorso le autorità hanno arrestato l’ex presidente Nambaryn Enkhbayar per “corruzione”. Enkhbayar, che aveva iniziato lo sciopero della fame, ritiene di essere vittima di un complotto politico per screditarlo e non si è ancora presentato in tribunale (la prossima udienza è stata posticipata al 12 giugno). A parte la disputa sulle motivazioni e le cause, la vicenda aumenta ulteriormente la possibilità che la tensione rimanga alta in seguito alle votazioni dal momento che i supporter dell’ex presidente hanno già protestato per la decisione: il rischio è che un risultato favorevole al Pd non venga accettato dagli avversari.
Ulan Bator. Foto gentilmente concessa da Antonio Sottile (Coccinelle)
In ogni caso i problemi futuri rimangono. Lo stesso presidente li ha messi sul tavolo sempre parlando con il FT: «Con vecchie infrastrutture e con vecchie infrastrutture economiche non possiamo mantenere il passo con la crescita dei capitali in entrata. Per questo abbiamo la necessità di indirizzare le risorse del minerario in altri settori».
Ci sono risorse potenziali tali da rendere ricco ciascuno dei 2,8 milioni di abitanti, per un terzo concentrati a Ulan Bator, l’unico vero polo urbano. In piazza svetta la statua dell’esploratore italiano Marco Polo e sulle montagne che circondano la città è impresso il ritratto del conquistatore Gengis Khan. I palazzi governativi in stile sovietico, retaggio della dominazione russa, sono in evidente contrasto con i grattacieli di nuova costruzione. Per via dell’alta concentrazione di abitanti il traffico è molto intenso e contribuisce a rendere la capitale la terza città più inquinata del mondo. È infatti una consuetudine vedere Suv marca Porche Cayenne sfrecciare per il centro: spia dell’alto tenore di vita degli abitanti; in alcuni casi nomadi o allevatori che hanno ricevuto risarcimenti dalle compagnie minerarie per lo sfruttamento del territorio o del pascolo che dava loro sostentamento.
Suv parcheggiati in una via di Ulan Bator. Foto gentilmente concessa da Antonio Sottile (Coccinelle)
Se la classe media è in ascesa e rappresenta, secondo fonti governative, il 20% della popolazione, il 5% sono “top-spender”. Tant’è che il negozio con il maggiore fatturato è quello di Louis Vuitton, marchio della moda francese. I brand di lusso nella capitale comunque si sprecano (Swarosky, Mont Blanc, Burberry, Hugo Boss, Guess, Ulisse Nardin, Calvin Klein, Armani e Zegna, solo per citarne alcuni). Tra le aziende italiane che hanno approfittato di questa opportunità c’è il marchio Coccinelle, nato a Parma nel 1978, che ha avviato il primo punto vendita monomarca di accessori moda made in Italy nel paese all’interno del “Max Mall”, uno dei tre grandi magazzini in città.
Antonio Sottile, direttore dello sviluppo commerciale Coccinelle con un’esperienza decennale nella holding Mariella Burani, di ritorno da Ulan Bator spiega a Linkiesta: «L’approccio è iniziato un anno fa quando il nostro partner locale, che ha in seguito aperto l’attività in franchising, ha visitato lo showroom milanese e così abbiamo ospitato del personale mongolo per un periodo di training nei nostri negozi».
Sottile, che è anche Console per la Bielorussia in Emilia Romagna, riferisce che non ci sono stati problemi né per avviare l’attività né per esportare i prodotti da mettere in vendita, e che per iniziare le operazioni non si è avvalso della collaborazione di nessun ente imprenditoriale o intermediario istituzionale italiano. «All’inizio la mia idea di entrare in questo mercato (è il 90esimo negozio Coccinelle nel mondo, ndr) è stata vista con scetticismo ma i risultati ci stanno dando ragione perché nel primo mese le vendite sono andate bene. E per il prossimo anno il progetto prevede di aprire un altro punto vendita», dice Sottile precisando che la provenienza del pellame rimane italiana, seppure la Mongolia produca il 10% delle pelli vendute nel mondo.
Nel corso degli anni la vendita di pellame a industrie cinesi, che privilegiavano la quantità a discapito della qualità del prodotto, ha impoverito la produzione nazionale, spiegano dalla Camera di Commercio Italo-Mongola. Un accordo bilaterale sottoscritto con l’Italia tende a ovviare a questo problema. «Con le associazioni confindustriali e di categoria – spiega il presidente Michele De Gasperis – vogliamo seguire i mongoli lungo tutta la filiera: formazione del personale, fornitura di prodotti chimici e proponiamo la vendita di macchinari industriali (sono esentate da imposte doganali e IVA le Pmi che producono macchinari e attrezzature, ndr)». Su questo fronte l’intenzione è quella di costituire una società mista italo-mongola che si affianca alla creazione di un distretto conciario su 50 ettari di terreno a trenta chilometri dalla capitale. Il dossier è in fase preliminare ed è in mano al ministero delle Infrastrutture che si propone come advisor in attesa della gara d’appalto.
Traffico intenso a Ulan Bator. Foto gentilmente concessa da Antonio Sottile (Coccinelle)
È singolare che, secondo quanto riferiscono dalla Camera, i colossi italiani in particolare delle infrastrutture non siano ancora arrivati in Mongolia visto che le strade sono in gran parte sterrate, ci sono solo due vie ferroviarie ed è in fase di studio la costruzione di 14 nuovi piccoli aeroporti. «I grandi – aggiunge De Gasperis – non ci sono ancora. Come spesso accade nei mercati emergenti sono i piccoli che stanno facendo da apripista». «Sarà necessario ripianificare l’assetto urbano della capitale, creare nuove città e collegarle tra loro. Immaginiamo che laddove sorgerà una nuova miniera, sorgerà un nuovo polo urbano», aggiunge De Gasperis, «ed è qui la vera opportunità di fare business dove gli italiani potrebbero fare la differenza».
È in fase avanzata un piano italiano, seguito dalla Camera, per proporre un network di 6 compagnie attive nell’edilizia civile, nella progettazione, e nel design per «offrire alle aziende e alle istituzioni mongole la soluzione ideale per progetti chiavi in mano», come si legge nel prospetto. Soluzioni anche a basso impatto ambientale. L’avanguardia è formata da Transtech (pianificazione aeroportuale), Sbg&Partners (ingegneria), Arch in Progress (edilizia residenziale), Bicuadro (design e architettura), Marco Censasorte Costruzioni (edilizia civile e hub trasporti) e Badelli Company (edilizia residenziale).
L’idea di offrire alla Mongolia progetti pronti all’uso si riflette anche nell’accordo che la compagnia aerea Meridiana sta cercando di concludere con la nuova compagnia aerea nazionale Chinggis Airways LLC, dopo avere siglato un memorandum di intesa. L’intenzione infatti non è solo quella di fornire due Airbus ma anche personale italiano (hostess e piloti) da affiancare personale locale da formare in modo da sostenere immediatamente l’operatività. Il governo di Ulan Bator ha però cercato di spuntare un prezzo inferiore a quello proposto. Le trattative sono tuttora aperte. Ma all’orizzonte c’è la concorrenza dei tedeschi della low-cost Condor.