«Il vero problema, sa qual è? La burocrazia, che soffoca le imprese», dice un imprenditore. Ha fondato una società di consulenza per la sicurezza informatica, e «lo vedo tutti i giorni con i miei clienti, società e studi per cui lavoro: un disastro. Non si può far nulla senza avere un’autorizzazione. E per averla si deve aspettare giorni, se non settimane. Ecco, all’estero non è così, è più semplice». È vero: in Italia, per cominciare un’attività imprenditoriale servono almeno 40 adempimenti. E, se si è nel settore alimentare, 44. Un labirinto burocratico inefficiente e logorante, che sembra togliere ogni fiducia. E quindi che si fa? «Si va all’estero».
Questa, almeno, è la risposta di Andrea Zucchi, 51 anni, amministratore unico della Key’O srl, imprenditore della provincia di Piacenza (e di Milano). Un’idea sempre più condivisa e apprezzata. Lui, per farlo meglio, ha convocato per sabato 23 giugno, un convegno a Carpaneto, nel piacentino. «Si chiama Passaporto per la vita», spiega a Linkiesta, «perché intendiamo lasciare il paese per poter continuare a vivere». Partire non è più morire, allora. Il senso profondo del convegno è questo: si possono decidere strategie, trovare idee, condividere esperienze. E soprattutto, organizzare l’esodo delle imprese, un’arca di Noè che trasporti tutti lontano, «Dove possiamo lavorare». Ma dev’essere fatta bene. «Vorrei che si formasse una comunità, e si lavorasse insieme per questo». Un progetto che, nella sua semplicità, è gigantesco. L’appuntamento è nel palazzo del Comune, in sala Bot, decorata da pitture del ventennio.
Il centro di Carpaneto, in provincia di Piacenza
«Una cosa informale», si era raccomandato. Alcuni gli hanno dato retta, ma lui ha battuto tutti, con il buon esempio: pantaloncini, infradito e maglietta gialla, e si staglia in una folla di camicie bianche. «Mi hanno definito un anarchico libertario», spiega. «Ebbene, lo sono». Di lui quasi tutti ricordano il gesto teatrale fatto a Piazza Pulita: la consegna delle chiavi della sua azienda in crisi al sottosegretario al Tesoro Gianfranco Polillo, in segno di sfida, denuncia e di addio. «più che un imprenditore, io sono un trapezista, perché faccio i salti mortali. Eppure, ho un’imposizione che raggiunge il 70%. Basta, fate voi, io con educazione, me ne vado», aveva detto. Il suo appello ha colpito nel segno, in molti gli hanno scritto, e da lì tutto è andato avanti. Ospite di Oscar Giannino a Radio24, ha lanciato l’idea dell’incontro, le persone hanno risposto, ed è nato il Carpaneto Day. O meglio, l’Ignition Day: «Sa che significa? Quando si lancia un missile, il conto alla rovescia finisce con l’ordine “ignition”: 3, 2, 1, 0, ignition», spiega. «Ecco, il missile è pronto a partire, anzi, sta per essere lanciato». Fuor di metafora, il missile sono gli imprenditori che «vogliono vivere», cioè, andarsene.
«Perché qui non si può più far niente», spiega un imprenditore del tessile, della provincia di Lecco. Ad accompagnarlo ci sono i suoi figli. «Ormai siamo rimasti in pochi, il settore è finito», spiega la ragazza. «Allora cerchiamo idee per uscire da qui. In Svizzera si fa un buon lavoro, si paga poco e le cose funzionano. Ma non è semplice». Meditano di lasciare il paese, seguendo l’esempio di alcuni “colleghi”. «Ci sono designer del tessuto da generazioni. Un lavoro delicato. Ecco, hanno lasciato l’azienda, e si sono messi in proprio». Ma non qui: «in Romania».
L’imprenditore piacentino Andrea Zucchi, a destra
L’esercito in fuga è corposo. «Anche noi ce ne vogliamo andare», racconta a Linkiesta un’imprenditrice friulana. «Io e mio marito ci occupiamo di pitture e vernici, e cartongesso». Un mestiere che fanno da più di trent’anni, con tre dipendenti e sempre meno ricavi. «La crisi ha fatto terra bruciata», racconta. Hanno dovuto cominciare a tagliare, su costi, sede e poi fino a ridurre anche il volume della produzione. Adesso «lasciare il paese è l’unica scelta possibile», spiega. Ma dove? «Non lontano. O in Slovenia, in Austria, adesso decideremo», racconta. Nella folla, c’è anche un nobile, con tanto di castello «che però ho pensato di vendere più volte», racconta. «Si tratta di un bene ereditato da generazioni. Grazie a quello, io mi occupo di ristrutturazioni edili, e di agricoltura, tutte attività nate intorno alla mia proprietà e che poi si sono sviluppate». Sorridente, snocciola storie ed episodi di pubblica inefficienza. «Il problema dei voucher, ad esempio», ride. «Me li hanno fatti comprare, ma nessuno sa come si usano. Tanto che mi hanno dovuto pregare di annullarli, altrimenti non ci si riusciva a pagare». Ma anche storie di permessi negati, dati, ritirati, attesi per mesi. «Un logoramento», ride. «Ma per non piangere», sia chiaro.
Imprenditori della zona e da fuori, commercialisti, artigiani, partite Iva, professionisti. Tutti incuriositi, attratti dall’idea di fare affari fuori. L’incontro ha un aspetto seminariale: si spiegano le opportunità di lavoro in Cile e in Paraguay, ad esempio, Per chi vuole restare in Europa, c’è la Lettonia. La racconta Lucio, che ha fatto fortuna a Riga come amministrando fondi comunitari per le imprese. «Qui le società si possono costituire in tre giorni, a prezzi bassissimi». I sindacati, dichiara, «se vogliono entrare nell’impresa, devono chiedere il permesso». Applausi e grida. «Lì è diverso: la tua impresa è considerata come una tua casa, c’è molto più rispetto», spiega. Ora, però, è tornato in Italia, ha aperto una società a Carpi e fa consulenza.
Intanto si stringono relazioni, si sviluppano interessi. «A me interessa uscire da qui, per ragioni commerciali», racconta a Linkiesta Anna. «Io sono addetta al commerciale di un’azienda di artigiani, lavoratori dell’oro». Ha 57 anni, «per cui non più tanto giovane. Mi sono ritrovata in mezzo alla strada, e senza pensione. Ma mi sono data da fare, e ho ricominciato». Prima era alla Rinascente, e si occupava dei rapporti con l’estero. «Sono stata in Cina per lavoro trent’anni fa. Così in Corea, BangladesH, India, Malesia. Ho visto quel mondo cambiare del tutto», mentre «l’Italia restava immobile». Per lei, però, è cominciata una nuova vita: «Voglio espandermi, per questo sono qui. Per creare relazioni e aprire ai mercati stranieri». Gli italiani, ormai, «non sono più quelli di un tempo. E io non credo nella loro voglia di fare».
Massacrati dal fisco, logorati dalle lungaggini di uffici e regole incomprensibili, azzoppati dalla crisi. Ma soprattutto, il problema è la pianificazione. «In Italia non si può fare», lo spiega un imprenditore che viene dal Paraguay. Ha lavorato lì da quando aveva quattordici anni. Poi, per nostalgia, è tornato in Europa. «Ho preso una casa in Piemonte, mi costava poco perché non c’era più l’Ici. Era un buon investimento, e poi ci tenevo». Le cose, però, sono cambiate «e allora non mi conviene più. Ma il problema, alla fine, è questo: non si può prevedere niente, non si possono fare piani nel lungo periodo. Non lo fanno gli italiani, figurati le aziende straniere». Un problema politico, senz’altro, e di mentalità. «Un problema che non si può risolvere: se tu anneghi e il paese annega, si muore in due. Se te ne vai, almeno tu sopravvivi». Tutti d’accordo. Tranne uno.
Una signora anziana, carpanetese doc, irrompe nell’assemblea: «Ma voi volete bene all’Italia o no?», grida, e spiazza l’uditorio. «C’è bisogno di voi, qui. Non potete lasciare il vostro paese. C’è bisogno di coraggio e intraprendenza. Solo voi potete farcela. Restate, e vincete qui». Un’altra retorica, un altro mondo. «Ma noi, da fuori, prendiamo prodotti italiani», spiega l’imprenditore del Paraguay. «Sì, ma portate fuori il lavoro», lamenta la signora. Poi, in disparte, una ragazza le risponde «Il problema è che il lavoro, qui, non ce lo lasciano fare». E allora, esodo o meno, la questione è qui. Forse ne nascerà un Movimento, per far pressione, o solo per aiutarsi. Capofila Zucchi, poi gli altri. Forse ne verrà anche altro. Ma resta importante, è molto seria.