Punto com o punto it? Ecco chi controlla gli indirizzi Internet

Punto com o punto it? Ecco chi controlla gli indirizzi Internet

Il sistema di indirizzi Internet che abbiamo imparato a conoscere sta per esplodere in un fiorire nuovi nomi e nuove combinazioni. Molte grandi aziende che hanno fatto la loro fortuna nella Rete puntano a fare incetta di domini di primo livello, e Google ovviamente è in prima linea, con 101 richieste. Ai classici «.it»,«.com», e «.org», si affiancheranno in tutta probabilità «.youtube », «.android» e «.gmail». A spalancare i cancelli è stata l’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (Icann) – l’ente regolatore che associa le pagine web alle stringhe di lettere e caratteri che utilizziamo tutti i giorni. È alla sua porta che le più grandi società del mondo dovranno bussare per ottenere il prezioso suffisso, e le decisioni prese nella sua sede di Marina del Rey, in California, valgono in tutto il pianeta. Un potere che non ha mancato di suscitare polemiche internazionali.

L’Icann è un’organizzazione non-profit al cui vertice siede l’americano Rod Beckstrom, presidente e amministrazione delegato. A nominarlo è il Board of Dirctors, un consiglio composto da 16 membri votanti. Uno di questi è Beckstrom stesso. Gli altri sono espressione di una micro galassia di istituti e associazioni che rappresentano gli interessi più disparati. Due sono eletti dai gestori dei domini nazionali – «.it» per l’Italia, «.fr» per la Francia e via dicendo. Un compito che nel nostro Paese è affidato al Cnr di Pisa, sotto la supervisione del ministero per lo Sviluppo Economico. Un seggio è garantito ad associazioni che rappresentano gli utenti e la società civile, e altri due spettano all’ente che gestisce la distribuzione degli indirizzi Ip, cioè i codici numerici che identificano in maniera univoca i siti web. Codici a cui, successivamente, vengono associati gli indirizzi Internet così come li conosciamo.

Le nomine rimanenti sono in mano a organismi in cui si affacciano gli interessi del mondo delle aziende. Otto spettano al Nominating Committee – comitato per le nomine –, un’assemblea con 11 membri votanti. Se alcuni di questi sono selezionati da divisioni dell’Icann stessa e uno è espressione di utenti e società civile, la maggioranza dei voti è però in mano a sigle dietro cui, in maniera più o meno diretta, si nascondono aziende di telecomunicazioni che forniscono servizi internet, colossi come Google, Facebook, Hsbc, la lobby farmaceutica canadese, quelle per la tutela del copyright, e altri soggetti legati al mondo delle imprese. Una scelta rivendicata dall’Icann, che nel bilanciamento di interessi diversi vede la garanzia della sua indipendenza. Al Board è inoltre affiancato un Government Advisory Committee, in rappresentanza dei governi nazionali. Ma suo potere è meramente consultivo, come dimostra l’approvazione del dominio «.xxx» per la pornografia – scelta osteggiata dalla maggior parte degli Stati membri.

Un gruppo di Paesi guidati da Russia, India, Brasile e Cina chiede che le funzioni dell’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers siano trasferite sotto il cappello delle Nazioni Unite. L’obiettivo è allontanare il controllo dei domini dalla California e metterlo al riparo da quella che ritengono essere un’eccessiva influenza occidentale. È certamente vero che la gran parte del Board dell’istituto proviene da Europa e Stati anglosassoni. Non stupisce però che i profili più qualificati nel settore Ict si trovino aree geografiche in cui il l’industria tecnologica è più avanzata.

«Internet è nato e cresciuto in maniera spontanea, ed è così che deve andare avanti. Un simile sviluppo si assicura soltanto con il contributo di soggetti diversi. Non c’è una dipendenza dalle grandi aziende, ed i membri del board sono di altissimo profilo. Un controllo di tipo politico sulla rete sarebbe la sua fine, sarebbe contrario al concetto stesso di internet», dice a Linkiesta Stefano Trumpy, il rappresentante del Governo italiano presso l’Icann.

A smorzare le polemiche, il ruolo in larga parte notarile esercitato dall’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers. Ma gli interessi in gioco sono enormi. Per le aziende un dominio efficace può essere un’arma vincente. Non sono rari i fenomeni di cybersquatting: corsa a registrare indirizzi che ricalcano i nomi di grandi società, nella speranza che queste, prima poi, siano disposte a pagare per averli. Se fatto in malafede, è illegale. E Mediaset è in causa con un cittadino americano, Dieder Madiba, che ha registrato «mediaset.com». Dopo aver perso un arbitrato presso il Wipo – una delle cinque organizzazioni internazionali per la risoluzione delle controversie riconosciute dall’Icann – la società italiana ha ottenuto una sentenza favorevole dal Tribunale di Roma. Ora bisogna vedere se l’istituto con sede a Marina del Rey si piegherà al volere di un ordinamento giudiziario nazionale.

Non mancano i timori di cybersquatting legati alla liberalizzazione dei domini di primo livello. Molte aziende temono di dover acquistare nuovi indirizzi solo per evitare che altri sfruttino impropriamente il loro nome. Certo, si tratterebbe di “squatter” di lusso. Il costo di un nuovo suffisso è di almeno 185 mila dollari, più una tassa annuale di 25 mila dollari.
 

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