Il mestiere dei giornali è (dovrebbe essere) dare notizie, e non diventare notizia. Per esempio, di fronte a uno scandalo finanziario le cui proporzioni sono superate solo dalle modalità con cui si cerca di uscirne, ci si aspetta che uno non si accontenti di risposte di circostanza ma che cerchi di interrogarsi sul perché e per come di un fatto, per arrivare a una nuova notizia. Magari, anche, per pubblicarla. E ben venga anche la polemica: nel merito. Nulla di straordinario, si capisce. Invece accade che ci viene fatto l’onore di diventare noi stessi una notizia, in compagnia – immeritata, per noi che abbiamo appena festeggiato un anno di vita – di storiche e autorevoli testate del giornalismo italiano (leggi qui).Si può sempre prendere la scorciatoia e ricorrere all’ultima risorsa per ottenere ragione: buttarla in vacca, attaccando ad personam. Per esempio, di fronte ai dubbi crescenti che da più parti si sono levati sul portafoglio investimenti di Unipol, ieri l’amministratore delegato della compagnia Carlo Cimbri ha scelto di liquidare il tutto come «provocazioni messe fuori ad arte» e «diffuse ai giornali per cercare di creare problemi all’operazione»: dipingendoci, insomma, come una buca delle lettere. Unipol è impegnata in una controversa operazione di salvataggio di un’altra compagnia assicurativa, Fondiaria Sai, messa a mal partito da un decennio di cattiva gestione. Insieme, le due società si accingono ad attingere al pubblico risparmio per la modica cifra di 2,2 miliardi di euro. Già che c’era Cimbri ha bollato come “fantasie e chiacchiere” le conclusioni degli advisor di Fondiaria Sai contenute in un rapporto riservato che Linkiesta ha pubblicato ieri (v. FonSai, ecco la due diligence di Ernst&Young sui conti Unipol). Ora, comprendiamo che in Italia sia virtù universalmente apprezzata il non disturbare il manovratore. Ma se operatori del rango di Ernst & Young, Goldman Sachs e Citi ti guardano nei conti e mettono per iscritto che ci sono minusvalenze implicite per 1,9 miliardi, forse una qualche risposta bisognerebbe darla: nel merito. E anzi, visto che si sta chiedendo di condurre la predetta operazione in regime di eccezionalità (esenzione da Opa per acquisizione del controllo, esenzione da Opa per acquisto indiretto, esenzione da Opa per fusione), forse sarebbe anche opportuno che le versioni finali di quei documenti (ovviamente, anche della due diligence su FonSai) fossero rese pubbliche. Ma per questo ci vorrebbe un giudice a Berlino. Sennò i sospetti si alimentano e fra capo e collo ti capita un Leonardo Del Vecchio qualsiasi, che in un’intervista concessa al Corriere chiede perché «si procede a una fusione con due aumenti di capitale che mi fanno pensare che tra tre anni saranno ancora in difficoltà». O che uno come Giovanni Perissinotto (ex a.d. delle Generali) metta per iscritto i suoi «seri dubbi» sulla «salute finanziaria di quello che dovrebbe essere il salvatore». Provocatori anche loro? E se è così, come mai, d’un tratto, la Consob si è messa a chiedere spiegazioni sui conti di Unipol, come si legge nel finale di quest’articolo di Repubblica? P.S. Qualche parola va detta anche su noi stessi e sui soci di questo giornale, alcuni dei quali, come segnaliamo per prassi nei nostri articoli, capita che siano coinvolti a vario titolo nelle vicende di cui scriviamo. In un mondo dell’informazione dove il padrone in redazione è regola (quasi) universale, Linkiesta appare uno strano animale, difficile da inquadrare: di conseguenza, si cerca di semplificare, riconducendola a questo o a quello. Ha un’ottantina di soci, giornalisti inclusi, e nessun azionista di riferimento: una micro public company che solo il web, oltre che la tenacia dei promotori, ha reso concretamente possibile. Tutto ciò non ci mette la verità in tasca: ma è una buona polizza di indipendenza per fare il mestiere di giornalisti. Di sicuro, non ci lascia alibi. Capiamo anche che, a chi pensa vecchia-maniera, tutto ciò possa sembrare “fantasie e chiacchiere”. Amen. Ma, se proprio non si ha nulla di più interessante da fare che fare l’inchiesta su Linkiesta, almeno si vada in fondo e si guardi chi siamo e chi-c’è-dietro (è tutto pubblico). Giusto per rimanere alla questione di cui sopra, si potrebbe scoprire che di “soci de Linkiesta” ce n’è da una parte, dall’altra, e anche in mezzo: e non abbiamo lesinato critiche. In piena indipendenza, e ragionando sui fatti e sui numeri, non sulle appartenenze.