Rinnovarsi o sparire? Le Province vogliono chiarezza da Monti

Rinnovarsi o sparire? Le Province vogliono chiarezza da Monti

Vi ricordate l’abolizione delle Province? Se ne parla da decenni. L’aveva prevista, per restare ai tempi recenti, la manovra della scorsa estate dell’ex ministro Tremonti, che avrebbe dovuto tagliare i 36 enti intermedi sotto i 300mila abitanti. La Lega era insorta, cavalcando il coro di proteste di mezza Italia e la contestata misura era stata rinviata a data da destinarsi (inserita in una legge di riforma costituzionale dai tempi lunghi e gli esiti incerti).

Poi è arrivato il Governo Monti, che all’articolo 23 del decreto “Salva Italia” di dicembre trasforma le Province in enti di secondo livello, eletti cioè non direttamente dai cittadini, ma da rappresentanti dei Comuni e le svuota, di fatto, di qualsiasi funzione, tranne quelle di indirizzo e coordinamento delle attività comunali. Spariscono, inoltre, le giunte con i loro assessori e i consigli provinciali sono formati da non più di dieci componenti. Il risparmio atteso, fa sapere l’esecutivo, è di 65 milioni di euro. Anche in questo caso le proteste sono pressoché immediate: l’Upi (Unione delle Province italiane) organizza consigli aperti per spiegare cosa sarebbe “un’Italia senza Province”, mentre alcune Regioni, seguendo l’esempio del Piemonte, fanno ricorso alla Consulta contro il “Salva Italia” che, in sostanza, priva le Province della loro natura costituzionale. 

Oggi a che punto siamo? Il 6 aprile scorso il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge, che deve ancora iniziare il suo iter parlamentare, e su cui l’Upi ha già espresso parere negativo, che conferma la trasformazione delle Province in enti di secondo livello e detta le regole per il nuovo sistema elettorale. Presidenti e consigli provinciali saranno eletti con metodo proporzionale – senza soglie di sbarramento e premi di maggioranza – dai sindaci e dai consiglieri comunali. Il provvedimento, per ora, è fermo al palo. Nel frattempo, però, nel dibattito pubblico (per la verità piuttosto limitato) il tema dell’abolizione delle province è stato rimpiazzato da quello del loro accorpamento.

La stessa Bce, dopo aver caldeggiato, nella lettera dello scorso agosto (firmata dall’ex presidente Trichet e da Draghi allora Governatore della Banca d’Italia, e indirizzata all’esecutivo Berlusconi, ndr) l’abolizione o fusione di «alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)», di recente ha invece fatto sapere che «accorpare le Province sarebbe l’unica, vera misura di taglio di costi della politica».

Così, seguendo le indicazioni dell’Europa, il Governo Monti dovrebbe inserire nel decreto sulla spending review il capitolo Province. Con il sottotitolo, ovviamente, non più “soppressione” ma “accorpamento” che dovrebbe avvenire tenendo conto di tre parametri: la popolazione (con l’asticella fissata a quota 300 o 400mila abitanti), la superficie, e il numero di Comuni. In questo modo, a seconda dei casi, le Province dovrebbero scendere di 17 o 30 unità, cioè passare da 107 a 90 o da 107 a 77. Certo è, fa notare l’Upi, che in assenza di una riforma organica delle autonomie locali, il rischio di rivalità di antica memoria e rivendicazioni territoriali è alto (quante Province mal sopporterebbero di essere assorbite dai territori confinanti?).

Anche per questo l’Unione delle province italiane torna alla carica con la propria controproposta, presentata per la prima volta a febbraio e che sarà nuovamente al centro dell’assemblea nazionale del 26-27 giugno prossimi a Roma. In quell’occasione sarà anche presentato un manifesto, sottoscritto da Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che chiede, tra gli altri, di considerare negli accorpamenti le specificità dei territori, e che il ruolo di regia sia affidato alle Regioni.

Le Province, che confidano nell’autoriforma piuttosto che nella scure calata dall’alto, richiedono inoltre una delega, da parte del Governo, per istituire le 10 città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria) previste dalla Costituzione ma mai attuate; la riduzione da 107 a 60 delle Province, la revisione di tutti gli enti periferici dello Stato (prefetture, camere di commercio, sedi decentrate dei ministeri) e delle oltre 5mila tra aziende, società e agenzie strumentali, che spesso esistono solo per generare consenso.

L’operazione, anche questa dai tempi presumibilmente lunghi, dovrebbe far risparmiare alle casse pubbliche 5 miliardi di euro.
Intanto, la commissione Affari costituzionali del Senato sta lavorando, con non poche difficoltà, alla nuova Carta delle autonomie, che dovrebbe lasciare alle Province poche funzioni di “area vasta” (governo del territorio, viabilità, trasporti) privandole di altre, come la gestione dei centri per l’impiego e l’edilizia scolastica. Inutile dire che l’Upi non è d’accordo.

Tuttavia, mentre le Province si dicono disponibili a cambiare ma alle loro condizioni, e Governo e Parlamento non sembrano avere un orientamento chiaro, il tempo stringe. Perché se il nuovo Codice degli enti locali non sarà approvato entro il 31 dicembre 2012, le province perderanno, come prevede la manovra di Monti, tutte le competenze amministrative che andranno trasferite ai Comuni e alle Regioni. Che il fattore temporale non sia secondario lo dimostra il caso delle 9 amministrazioni, in scadenza di mandato, che a maggio non sono andate al voto e sono state commissariate, sempre come stabilisce il “Salva Italia”. Anche loro, al pari di 8 Regioni, hanno annunciato il ricorso alla Consulta. Che potrebbe anche esprimersi favorevolmente, vista la dubbia costituzionalità di una misura che impone l’eliminazione, per legge ordinaria, di organi elettivi previsti dalla Costituzione. Per questo al Governo e al Parlamento conviene agire bene, e in fretta.

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