Il viaggio nella manifattura de Linkiesta ha avuto il grande merito di aver portato il dibattito sulla competitività della nostra industria a riguadagnare qualche ulteriore posizione rispetto agli anni delle lodi sperticate dell’«economia di carta». L’esplosione della bolla finanziaria nel settembre 2008 – al pari di quelle precedenti (a ben vedere, non erano passati poi molti anni dalla bolla legata alla New Economy e alle dot.com del 2001) – ci insegna che la prosperità non è eterna ma va coltivata con pazienza e lungimiranza. E l’esercizio riesce meglio a quelle nazioni che fondano la propria ricchezza sull’economia reale, e la manifattura in primis.
In effetti, nell’Unione europea e in Italia è forte il legame tra grado di industrializzazione e livello del benessere raggiunto, perché, come dimostra lo studio Scenari industriali del Centro studi di Confindustria (giugno 2011), la maggiore o minore presenza del manifatturiero è decisiva per determinare la ricchezza degli abitanti di un determinato territorio.
Affinché il Paese torni a crescere e a generare maggiore ricchezza, occorre mettere in campo – come ha sottolineato con forza Romano Prodi nella sua intervista a Linkiesta – una (nuova) politica industriale. Al più presto.
Giunti al punto in cui siamo, si tratta di invertire la rotta. Due dati Istat possono chiarire lo stato di salute della nostra economia: nel periodo 2001-2010 la produttività oraria del lavoro è cresciuta appena dell’1,2% (contro l’11,4% dell’area Ue-27), e di conseguenza il Pil di un modesto 4% (contro il 13,9% dell’Ue-27). Ad aggravare il quadro, vanno poi aggiunti altri due fatti: il Pil, dopo il tracollo del 2009, non ha mai ripreso effettivamente quota; le più autorevoli previsioni da qui al 2020 – pensiamo allo scenario macroeconomico di Prometeia – parlano di un’economia italiana capace di crescere (si fa per dire) intorno all’1% medio annuo.
Ma in che direzione occorre agire? L’agenda di policy è densa di indicazioni e il governo Monti ha (ri)avviato alcuni fondamentali cantieri delle riforme (liberalizzazioni, mercato del lavoro e pensioni), mentre altri attendono ancora di essere aperti. Ora, confinando la nostra attenzione alla politica industriale, va certamente ripreso, sviluppato ed aggiornato “Industria 2015”, programma precocemente abbandonato dopo la caduta del governo Prodi nel 2008.
«L’essenza dello sviluppo economico è la trasformazione strutturale, l’ascesa cioè di nuove industrie al posto di quelle tradizionali»: così scrive Dani Rodrik (J. F. Kennedy School of Government), oggi il più illustre studioso di politica industriale, con toni dalla chiara impostazione schumpeteriana. Ebbene, “Industria 2015” andava proprio in questa direzione, così come ci va la High-Tech Strategy 2020 del Governo federale tedesco, che identifica cinque tecnologie chiave: clima/energia, salute/nutrizione/mobilità, sicurezza, comunicazione. Di qualcosa del genere l’Italia ha oggi bisogno, e non solo per ragioni di sostanza ma anche di metodo: è infatti necessario ridurre drasticamente la parcellizzazione regionale (o addirittura locale) delle azioni a sostengo dell’economia reale.
Difatti, credo che dopo un decennio di applicazione – in questo campo – della riforma del Titolo V della Costituzione, si possa ragionevolmente affermare questo: una sommatoria di politiche industriali regionali non dà luogo a una politica industriale nazionale a tutto tondo, da far valere poi sui tavoli di Bruxelles e Strasburgo dove si gioca una parte non piccola della partita per il rilancio dell’economia europea.
Primo terreno d’elezione della nuova politica industriale è rappresentato dall’aumento degli investimenti in «innovazione e conoscenza» nel nostro tessuto industriale. Oggi più di ieri, il “lievito” è rappresentato dalla ricerca scientifica e dal trasferimento delle nuove conoscenze al mondo della produzione. Appare quindi prioritario assecondare le tensioni a investire in conoscenza, in innovazione, in formazione di capitale umano di qualità, da parte delle imprese che sanno guardare al futuro. In tale ottica, serve però fare ordine nei tantissimi strumenti presenti, spuntati nel tempo come funghi all’ombra dei cento, mille campanili di cui è fatto il Paese; con molti di questi strumenti di dubbia utilità. Se fosse vero il contrario, oggi non ci troveremmo a dover fare i conti col fatto che la quota della produzione industriale mondiale dell’Italia è scesa ad un valore di poco superiore al 3% (era il 4,5 per cento nel 2007), col contestuale calo nella nostra quota sulle esportazioni mondiali (anch’esse ormai inferiori al 3 per cento).
Lo ricordava il presidente Prodi nella già citata intervista: pensiamo a che cosa sarebbe il nostro Paese, se anziché disperdere le (poche) risorse nei mille rivoli delle leggi ad hoc, delle agevolazioni varie, delle iniziative regionalistiche (o peggio localistiche), le concentrasse in una grande iniziativa plasmata sul modello tedesco del “Fraunhofer Institute”. Sarebbe possibile, finalmente, concentrare gli sforzi in grandi progetti strategici volti – come prima si diceva – al cambiamento strutturale.
Nel momento in cui nel mondo anglosassone si sta riscoprendo il ruolo della manifattura – “Why Manufacturing Matters” si interrogano sempre più di frequente negli Usa – vi è dunque per noi una missione (o, meglio, una responsabilità) supplementare. Che è questa: pur fra tanti limiti, l’Italia la manifattura non l’ha mai abbandonata, neppure negli anni dei famigerati «castelli di carta». Oggi, questa tradizione/vocazione manifatturiera – assai spiccata nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est – va coltivata e migliorata perché la «manifattura conta», eccome se conta.
Come cerco di mostrare nei due capitoli a essa dedicati nel mio libro La rondine e la piuma: scegliere la traiettoria nel governo dell’economia (Monte Università Parma editore, 2012), dalla manifattura dipendono gran parte degli investimenti in ricerca e sviluppo, così come il numero e la grandezza relativa delle imprese esportatrici.
Insomma, agli acritici cantori dello sviluppo dei servizi (o della terziarizzazione inevitabile) potremmo consigliare un viaggio di studio lungo la via Emilia: lì troveranno un certo numero di imprese di medie dimensioni, piene giovani in camici bianchi, di età inferiore ai 35-40 anni, in possesso di laurea (o Master o PhD): sono i nostri talenti.
Di imprese così ne servirebbero molte di più. Questo è il punto vero della questione.
*Franco Mosconi, docente di Economia industriale all’Università di Parma, ha recentemente pubblicato La Rondine e la piuma: scegliere la traiettoria nel governo dell’economia, con cui l’autore, attraverso 50 articoli scritti negli ultimi 15 anni, traccia una traiettoria nel governo dell’economia, soffermandosi sulla indispensabilità della manifattura per la crescita economica
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