Quasi dieci anni fa ho assistito a una manifestazione di cittadini infuriati che si opponevano alla chiusura di un ospedale che non arrivava ai 100 posti letto, con la motivazione che, se fosse stato chiuso, le donne di quella zona avrebbero dovuto partorire in un ospedale che distava ben 23 chilometri (30 minuti d’auto), ma che soprattutto i bambini avrebbero dovuto nascere “addirittura” in un’altra provincia. Quell’ospedale, che faceva un numero di parti annui inferiori ai 300, non disponeva né di un reparto di neonatologia né di uno di rianimazione ed era quindi «pericoloso» per l’incolumità sia dei nascituri che delle madri. Eppure è tutt’ora in attività. Così come gli altri ospedali con meno di 500 parti l’anno: in Italia sono l’8% del totale (cosa che dal dicembre 2010 non dovrebbe più essere possibile, stando all’accordo Stato-regioni), una «cattedrale» con costi esorbitanti se confrontati con la bassa qualità dei servizi erogati.
Ancora una volta in questo Paese vincono il populismo e la demagogia. E il governo Monti deve arrendersi, eliminando dalla bozza della “spending review” il taglio dei piccoli ospedali. Ma dopo anni di continuo sperpero di denaro pubblico, siamo arrivati al dunque: le casse dello Stato sono vuote e i tecnici al governo devono tentare di raschiare il barile per trovare risorse che evitino il collasso definitivo del sistema Paese. Nella bozza del decreto di “spending review” è prevista una sforbiciata al fondo sanitario di 1 miliardo per quest’anno e di 2 miliardi nel 2013, e altrettanti nel 2014, senza dimenticare che questi tagli si vanno ad aggiungere agli 8 del biennio 2013/2014, già previsti dal “decreto Tremonti” del 2011. Nel mirino ci sono ospedali, farmaci e fornitori di beni e servizi.
Dai governatori, dai sindacati, dalle forze politiche e da tutti i fornitori (aziende farmaceutiche, farmacisti, strutture sanitarie private accreditate) si è immediatamente sollevato un coro di proteste, e da più parti si è paventata la possibile “macelleria sociale” che questi interventi causerebbero. Ma ciò che, ancora una volta, ha scatenato le maggiori proteste è stata la paventata “riorganizzazione” dei 149 piccoli ospedali con meno di 80 posti letto, di cui 21 in Lazio, 20 in Calabria, 17 nelle Marche, 15 in Sicilia e 11 in Sardegna, cosa poi prontamente rientrata nella bozza definitiva. Resta invece l’obiettivo di un ulteriore abbassamento del rapporto posti letto/abitanti, che dovrebbe scendere dal 4 per mille, fissato dal Patto per la Salute 2010/2012, al 3,7 per mille comprensivo dello 0,7 per mille per i letti di lunga degenza e riabilitazione.
In realtà chiudere “ospedali” con meno di 80 posti letto avrebbe solo rappresentato un enorme vantaggio per la salute dei cittadini che ne usufruiscono. Perché? È ben noto, ai professionisti e alle autorità sanitarie, che strutture di tali dimensioni non sono in grado di garantire alcuna efficienza e sicurezza, perché i costi delle tecnologie necessarie per una gestione “dignitosa” di patologie di media complessità (non volendo parlare di emergenza) sono tali che risulta impensabile che strutture di queste dimensioni possano esserne dotate. È quindi indispensabile non solo essere realisti, ma fare uno sforzo di onestà intellettuale e informare correttamente i cittadini di questa realtà non perpetrando, a puri fini di “consenso elettorale”, quella politica che ha portato il nostro Paese a essere costellato di “pseudo strutture ospedaliere”.
Solo l’abnegazione, il sacrificio e la professionalità degli operatori impediscono che in queste strutture si compiano quotidianamente tragedie superiori a quelle che la cronaca già troppo frequentemente riporta sotto il titolo della “malasanità”. Ma la malasanità comincia nel non informare i cittadini che le regole della sicurezza e della buona qualità dei servizi devono passare da una riorganizzazione del nostro servizio sanitario pubblico, che rimane innegabilmente tra i migliori nonostante sia tra i meno finanziati del mondo occidentale. Bisogna innanzitutto fare un grande sforzo di chiarezza e onestà verso la popolazione spiegando chiaramente che non è possibile garantire «tutto a tutti», che non possiamo pensare, con le risorse disponibili, di prescrivere ed effettuare prestazioni superflue e che qualcosa non è giusta solo perché «io pago le tasse».
È indispensabile un grande sforzo di realtà e di senso civico che accomuni i cittadini e gli operatori sanitari. Questi ultimi devono imparare a operare tenendo conto in primis della salute dei propri assistiti, ma senza dimenticare la responsabilità di valutare, ogni volta, il “benefico costo” delle scelte professionali, valutando le risorse complessive a disposizione. Non operando in questo modo, si arriva alla situazione attuale in cui si rischia concretamente di veder scomparire il diritto, fondamentale del vivere civile, rappresentato dal garantire la salute a tutti i cittadini. I politici devono smettere di fare promesse demagogiche a puri fini elettorali («tutto a tutti»), il personale sanitario deve operare in scienza e coscienza per il bene dei propri assistiti ma sempre in una logica di appropriatezza clinica e compatibilità economica, mentre i cittadini devono comprendere che la salute è un diritto ma ha un costo e delle regole che devono essere conosciute e rispettate.
È poi indispensabile che si avvii concretamente quella ristrutturazione del sistema, che deve adeguarsi al mutamento dell’epidemiologia del nostro Paese: gli ospedali, territorialmente distribuiti in una logica di rete di servizi a intensità crescente, attrezzati con le migliori e più moderne tecnologie, devono dedicarsi al trattamento dell’emergenza, delle patologie acute e di quelle più complesse. Tutto il resto deve essere gestito territorialmente e al domicilio dei pazienti (dove una giornata di assistenza costata meno della metà di una in ospedale), riorganizzando il territorio (cosa sempre annunciata, legiferata, ma sempre scarsamente applicata) con presidi di primo livello tecnologicamente attrezzati, capillarmente distribuiti e facilmente accessibili ai cittadini. In questi centri, aperti minimo 12 ore al giorno, i medici di medicina generale associati e specialisti possono fornire risposte rapide e appropriate per le urgenze (l’80% degli accessi ai pronti soccorsi sono codici bianchi e verdi, quindi impropri), ma anche per l’assistenza dei pazienti affetti da malattie croniche o non autosufficienti e, inevitabilmente, per la prevenzione.
Per questo i tecnici del ministero non hanno bisogno di inventarsi nulla: in Italia quasi il 10% dei medici di medicina generale si sono negli ultimi quindici anni organizzati, investendo personalmente, creando società cooperative per dotarsi di spazi, attrezzature e personale in grado di dare una risposta idonea ai problemi della sanità territoriale. Queste loro esperienze sono state studiate, misurate, e oggi, in alcune regioni, si stanno anche sperimentando innovativi modelli gestionali della cronicità (CReG in Lombardia, Chronic Care Model in Toscana, Nuclei di Cure Primarie in Emilia Romagna, Ospedali di comunità etc.). Tutto ciò dimostra che esiste una parte, per quanto ancora modesta, del mondo professionale sanitario che non teme l’innovazione e le sfide di modernizzazione. È su questi modelli che il governo dei tecnici deve puntare se vuole realmente “modernizzare” un sistema senza distruggerlo, trasferendo quelle risorse improduttive che oggi vanno disperse in mille rivoli inutili verso modalità organizzative che nel breve periodo possono migliorare l’efficienza del sistema senza portarlo invece allo smantellamento.
*Consorzio Sanità – Co.S