“Figlio mio, ti lascio qui. Buona fortuna”

“Figlio mio, ti lascio qui. Buona fortuna”

Pulsante rosso. La minuscola saracinesca della Mangiagalli sale, tempestiva, sentimentalmente inaridita da cinque anni di vuoto. Da quel momento partono quindici secondi. Per regolare i conti col destino e infilare una creatura che si restituisce a nuova vita. La prima, onestamente, non è stata entusiasmante. Quindici secondi che nessuno da cinque anni ha mai voluto vivere. Perché? Perché mai nessun bambino, dal giorno in cui la culla tecnologica era stata immaginata come il rifugio degli indesiderati? E poi perché indesiderati, siamo così certi che abbandonare un bambino sia non desiderarlo?

Marta ha preparato con cura il suo distacco, il latte, il suo latte, i vestitini, i suoi vestitini. Si prepara un abbandono come spesso ci si dispone per un suicidio, minuziosamente, meticolosamente. Ogni movimento è calibrato, misurato con cura, disposto nell’ordine mentale come una successione di eventi certi, talmente certi da non prevedere la minima emozione. Se quella c’è stata, è solo un pallido ricordo. È una separazione persino manageriale, che non contempla il caso e forse neanche gli incidenti che il caso alle volte dispone sulla sua strada. Non ci può essere spazio, nelle ore della progettazione, né in quelle dell’esecuzione, per il più piccolo sentimento. Farebbe saltare il «piano».

L’ultimo momento di solenne disperazione, Marta lo ha avuto quarantott’ore fa, a cinque giorni dal parto casalingo. Ha preso il suo cucciolo e lo ha portato fuori, all’aria aperta, confondendolo tra mille altri bambini. La contaminazione ha avuto l’effetto che temeva: guardare, toccare, sorridersi producevano un effetto strano e orgoglioso, come se per il solo fatto di essere madre la società dovesse riconoscerle il suo occhio più benevolo. Si è chiesta più volte se una vita normale non fosse davvero possibile, dandosi regolarmente la stessa risposta. Si è chiesta come mai quell’istinto materno di cui sempre e incessantemente aveva sentito parlare, su di lei non producesse gli effetti che aveva ascoltato da altre mamme, tutte beatamente alla ricerca di una spiegazione logica e ancestrale alla quale non sfuggire.

Fuggire. Fuggire da responsabilità che non aveva cercato, e che non aveva condiviso neppure quella sera squallida in cui un tipo mai più rivisto l’aveva presa senza una sola ragione sentimentale. Vissuto l’incontro con quella banalità che spesso accompagna le semplificazioni, Marta si era caricata sulle spalle una maternità alla quale non riusciva a dare un significato preciso. Diventare madre in qualche modo l’affascinava, gettandola nel mondo dei grandi, lei così bambina. Per questo aveva scelto di farlo, quel bambino, come la proiezione adulta di sé, anche se amiche di strada non avrebbero aspettato una sola notte per abortire.

Marta ha preparato tutto con cura. È la prima in cinque lunghi anni che si presenta alla culla di strada della Mangiagalli. Ma è una così buona notizia, una sola ragazza in cinque anni, o non piuttosto la certificazione di una (terribile e apparente) contraddizione, l’essere cioè completamente responsabili e organizzati all’interno di un processo irreversibile di totale irresponsabilità? Come si può convivere, in un tempo, nella stessa figura di madri cattive e donne generose e profonde, che trovano il coraggio civile per aderire a un progetto così illuminato come quello di offrire a un piccolo sventurato una seconda, vera, possibilità?

Mentre si avvicina a quel marchingegno tecnologico, che appena accolto il piccolo lo coccolerà con la temperatura perfetta di un’incubatrice, Marta sorride senza dolore. Sa che la sua impresa sta per compiersi, sente arrivare su di sé la più completa maturità. Non sa di essere la prima, e neppure di aver tracciato quel piccolo solco che resterà nella storia moderna di una città come Milano.

Schiaccia il bottone rosso. Partono quindici secondi. Marta lo deposita con la grazia di una madre responsabile, a tre secondi dalla chiusura infila la sua mano per l’ultima carezza. Ciao, buona fortuna.  

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