“Contagio” è oggi la parola d’ordine in Europa. Nonostante il salvataggio del governo greco da parte della troika UE-Fmi-Bce, e il pesante taglio imposto a proprietari delle obbligazioni greche, i mercati non si sono sentiti rassicurati circa la permanenza della Grecia nella zona euro. Il sollievo portato dai risultati delle recenti elezioni greche è infatti evaporato nel giro di ore. Allo stesso modo, la decisione da parte dell’Unione Europea di versare circa 100 miliardi di dollari alle banche spagnole non è stata sufficiente a convincere gli investitori internazionali che il cordone ombelicale fra Stato e banche iberiche sia stato reciso. Dunque, la fiducia sui titoli sovrani e bancari in tutti i paesi periferici continua a scemare, come si evince dal rialzo dei tassi di interesse e degli spread sui Cds (Credit Default Swap). E le diverse proposte sul tavolo europeo, dall’“unione bancaria”, agli “Eurobonds” (Eurobills, Project bonds, Redemption funds, e altre ipotesi), all’“unione fiscale” continuano a esistere solamente nel regno dei sogni (o degli incubi, a seconda di chi debba pagare il conto).
La questione del contagio è dunque se la fuga dei capitali dai paesi periferici investirà in pieno anche l’Italia trasformandosi in una fuga dall’euro, e sua finale disintegrazione. Per affrontare la questione e capire cosa possano fare i paesi a rischio, e l’Italia in particolare, per allontanare questo scenario, è utile analizzare la recente evidenza empirica sui Cds dei sovrani europei.
OSSERVANDO I CDS
In una ricerca in corso all’università di Bologna abbiamo analizzato l’andamento dei premi pagati giornalmente per assicurarsi dal rischio di default sovrano, gli spread dei Cds. Abbiamo osservazioni giornaliere (1.630) per il periodo che va dal 10 gennaio 2006 al 29 marzo 2012 per quindici paesi europei, undici dei quali appartengono alla zona dell’euro (Germania, Francia, Italia, Spagna, Belgio, Grecia, Portogallo, Irlanda, Paesi Bassi, Austria, Finlandia), e quattro dei quali che non vi appartengono (Svezia, Norvegia, Regno Unito e Irlanda del Nord, Danimarca). Mediante tecniche econometriche, siamo in grado di separare, per ciascun paese, la parte del premio del Cds che può essere considerata “importata” da fuori, spiegabile cioè dal “contagio” proveniente dai rischi di default degli Stati non europei, europei, e da quelli pertinenti alle banche europee, rispetto a quella parte dovuta a fattori di rischio “domestici”, attribuibile cioè alla valutazione che il mercato assegna al rischio specifico del singolo Stato sovrano. Quando accade che questa componente “idiosincratica” schizzi verso l’alto contemporaneamente in molti paesi, possiamo parlare di “panico”: un fenomeno che potrebbe essere dovuto a diversi fattori: un comportamento “a gregge” (herd behavior) degli investitori, come quello che si verifica quando qualcuno urla “al fuoco” in un cinema e tutti si buttano verso l’uscita; un aumento generale dell’avversione al rischio del mercato, quando gli investitori , anticipando una maggiore probabilità d’insolvenza, disinvestono improvvisamente e tutti fuggono insieme da un’area di paesi considerata a rischio.
Per quanto riguarda l’impatto delle crisi, i paesi si dividono in tre “taglie”: piccola (Finlandia, Germania e Norvegia), media (Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Francia, il Regno Unito e l’Austria tendente sul versante alto) e grande (i paesi “periferici”).
In particolare, mentre il terremoto dei mutui subprime degli Stati Uniti scuote tutti i paesi europei, anche se in misura diversa (Irlanda, seguita da Austria e Regno Unito sono i paesi più colpiti, per motivi dovuti al ruolo delle loro istituzioni finanziarie), la crisi greca investe pressoché esclusivamente i paesi dell’euro. Norvegia, Svezia, Regno Unito e Danimarca, che non appartengono alla Eurozona, non vengono colpiti. Ma le differenze all’interno dell’area euro sono almeno altrettanto grandi, con Francia, Belgio, Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo che mostrano picchi molto alti e ricorrenti del rischio idiosincratico. Per spiegare perché negli episodi di crisi un paese è più vulnerabile di un altro non basta evidentemente l’appartenenza alla comune area dell’euro.
IL RUOLO DEI FONDAMENTALI FUORI E DENTRO LA CRISI
Vogliamo capire quali sono, se ci sono, le ragioni economiche che spiegano queste differenze tra i rischi dei paesi. Le analisi econometriche sulle determinanti delle differenze nel comportamento dei vari paesi ci dicono che nei paesi dell’Eurozona, tre fattori sono divenuti nella crisi più importanti.
1) Il livello del debito pubblico (che aumenta il rischio): durante la crisi gli investitori riscoprono il debito pubblico. Infatti accade che l’aumento del rischio è in media più elevato nei paesi in cui il rapporto debito pubblico-Pil è più alto.
2) Il tasso di crescita, che – quando c’è – riduce significativamente il rischio;
3) Il tasso di disoccupazione: l’economia reale diventa più importante all’interno della crisi, nel senso che i mercati tendono ad attribuire un maggior rischio di insolvenza a quei paesi che hanno maggiore tasso di disoccupazione e minor crescita.
Vi è inoltre un’altra differenza interessante con il periodo pre-crisi: i rischi sistemici dei paesi diventano sensibili al giudizio delle agenzie di rating (questa variabile non era significativa al di fuori della crisi).
Alla luce di questi risultati viene da chiedersi se non sia utile: 1) accelerare davvero privatizzazioni e dismissioni; 2) diluire nel tempo il consolidamento fiscale, una volta abbandonato il mito dell’expansionary consolidation; 3) sul mercato del lavoro puntare principalmente su forme di flessibilità salariale che riducano il rischio di licenziamenti anziché rendere meno costosi i licenziamenti nel mezzo di una recessione.
tratto da lavoce.info