Il grasso fa bene, specie se lo si usa in chirurgia

Il grasso fa bene, specie se lo si usa in chirurgia

«Non esiste al mondo materiale totalmente biocompatibile, il silicone biomedicale lo è molto, ma nel senso che non è stato trovato un materiale artificiale migliore; invece si possono ormai ricostruire e rivitalizzare con tessuti naturali autologhi gli organi sottoposti a svuotamento, utilizzando tecniche sicure, che danno ottimi risultati». Lo afferma senza esitazioni Gino Rigotti, il primo presidente della Società internazionale di Chirurgia rigenerativa (Ispres, che l’Ipras – International confederation for Plastic reconstructive & Aestthetic surgery – ha da poco sentito la necessità di creare nel suo ambito, proprio in seguito al grande interesse suscitato dalla scoperta di nuove metodologie che sfruttano importanti aspetti rigenerativi del connettivo grasso).

Non vi è dubbio che (nonostante il recente caso della francese Pip, la quale ha immesso sul mercato, con conseguente impianto in oltre 400 mila donne di protesi mancanti dei controlli standard, e della tracciabilità richiesta dalla regolamentazione per i prodotti biomedicali, risultate notevolmente pericolose) tutte quelle signore, che, per esigenze di copertina, o vanità, desiderano ardentemente sfoderare dal petto in men che non si dica nuove svettanti plastiche a bordo degli yacht, non si faranno scoraggiare, e continueranno a farsi infilare protesi al silicone per uso estetico. Ma qui si sta parlando di ben altra cosa. Eccola: già molti anni fa, prima del silicone il tessuto connettivo grasso veniva utilizzato come filler, per riempire, laddove il chirurgo aveva svuotato. Gli adipociti (le cellule del grasso), infatti, esponendo poche proteine di membrana, sono poco immunogene, e ben tollerate.

Il Prof. Andrea Sbarbati con il Prof Gino Rigotti

Ma oggi il grasso ha rivelato ben altre importanti proprietà: l’attuale ricerca di metodi sempre più naturali per recuperare i tessuti con scopi estetici, o ricostruttivi necessari dopo interventi chirurgici, o per curare piaghe da decubito, cicatrici, ustioni, e riempire fistole, ha portato alla scoperta che il connettivo adiposo (che forma la piastra su cui aderiscono molti altri tessuti), grazie al contenuto della sua componente staminale, e a condizione che vengano utilizzate delicate quanto naturali tecniche, è in grado di vivere e, in un certo modo, anche rigenerare l’organo in cui viene innestato.

Infatti «non si tratta di coltivare in vitro le staminali, né manipolare comunque il tessuto» rileva Andra Sbarbati, direttore della Sezione di Anatomia e istologia della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Verona, il quale è uno dei più noti esperti di cellule del grasso, e, che, insieme al collega Saverio Cinti dell’Università di Ancona, ne ha appena dimostrato l’origine endoteliale (ovvero la derivazione istologica dai vasi sanguigni, diversamente da quanto veniva finora ipotizzato).

A scoprire la vitalità del grasso e i suoi possibili impieghi è stata quindi un’equipe veronese molto integrata tra ricercatori di formazione medica – ma con elevate competenze biologiche – e chirurghi, che fa capo a Sbarbati, e a Rigotti, i quali hanno messo a punto la tecnica più efficace e naturale per ricostruire i tessuti mediante fat grafting.

In sostanza è stato ottimizzato l’utilizzo del grasso in chirurgia ricostruttiva: oltre al suo utilizzo, in alcuni casi utile con innesti di “megavolumi” (lipofilling), tecniche raffinate consentono oggi il trasferimento controllato di piccole masse adipose da distribuire nell’organo da recuperare dal punto di vista anatomico-funzionale, con interventi microscopici di trapianto (micro fat graft).

Seno ricostruito dopo l’asportazione di un quadrante

La validazione della tecnica si è ottenuta dallo studio degli effetti del trapianto di grasso mediante terapie con “nicchie staminali”, fino ad arrivare alla sintesi matematica della formula del diagramma di crescita dei tessuti, che consente la regolarizzazione della metodica chirurgica maggiormente utile a favorire le capacità rigenerative in piena sintonia con la naturale architettura dell’organo. Si tratta di metododiche nuove, che stanno facendo scuola, nonostante che, come tutte le cose nuove, abbiano bisogno del periodo necessario perché il corpo medico si convinca della loro validità.

«In ogni caso – osserva Rigotti – vi sono solo un paio di obiezioni, apparentemente circostanziate, ma in realtà frutto di disinformazione: con la prima si osserva che, il connettivo adiposo, essendo avascolare, non tutto può attecchire, formando spesso piccole calcificazioni, che potrebbero poi essere confuse, all’indagine con le tecniche di imaging, con elementi diagnostici, i quali potrebbero far sospettare un cancro… In realtà ciò è molto improbabile, poiché, mentre le calcificazioni sospette si depositano lungo i vasi sanguigni, e hanno una forma a bastoncello, o sono comunque microcalcificazioni, quelle eventualmente conseguenti a innesto di grasso sono calcificazioni più grandi, e per lo più dotate di una caratteristica forma ad anello. Inoltre si tenga conto che qualsiasi cicatrice può causare calcificazioni, e ci si dovrebbe quindi astenere da ogni pratica chirurgica. Anche la seconda obiezione, con cui si osserva che impiantiamo grasso che è neoangiogetico, ovvero che stimola la formazione di vasi sanguigni, così come avviene quando si sta formando il cancro, solleva un falso problema. Rispondo, infatti, che non è certo la neoangiogenesi, che di per sé produce il cancro, ma è il cancro a indurla quando insorge, avendo bisogno di neoangiogenesi per crescere. Inoltre, anche in questo caso, come sopra, si dovrà osservare che qualsiasi cicatrice è neoangiogenetica»…

Ma non basta: come impone comunque il dibattito scientifico, Rigotti ha pubblicato su Plastic and reconstructive surgery appositi studi, basati su un follow-up di ben sette anni, per controbattere a chi sollevava obiezioni. Nel primo studio è risultato che pazienti quadrantectomizzate, e sottoposte a inserzioni di tessuto adiposo hanno sviluppato significativamente meno calcificazioni delle pazienti del gruppo di controllo, dimostrando che l’impianto di connettivo adiposo, vascolarizzando i tessuti, era in grado di abbattere la formazione del tessuto ischemico insorgente in seguito alla terapia radiante, e che va poi incontro spontaneamente a calcificazioni. Il secondo studio ha poi dimostrato che le pazienti trattate con la tecnica del micro fat grafting non hanno rivelato alcun aumento nella casistica oncologica recidivante.

Al primo congresso della Società internazionale di Chirurgia rigenerativa di cui Rigotti è presidente (che ha dovuto chiudere in anticipo le iscrizioni per esubero di richieste), hanno partecipato 58 nazioni. L’Ispres, che conta già 700 soci, promette quindi una rivoluzione nell’ambito della chirurgia plastica, e per tutti i processi riparativi e ricostruttivi. Oltre che in Italia (a Verona e a Mantova, dove Gino Rigotti, già primario del Policlinico, opera ora nell’ambito della sanità privata convenzionata, e a Genova con Berrino) la tecnica di Rigotti-Sbarbati si è infatti diffusa a Miami, in Texas, a Boston, in Brasile.

La ricerca, comunque, a Verona prosegue perfezionando la nuova pratica con piccoli accorgimenti tecnici, derivati dalla sempre maggiore conoscenza della composizione cellulare del grasso e delle sue proprietà, e studiando sempre migliori composizioni di quegli elementi vicini alle cellule che ne influenzano il comportamento (fattori di crescita, citochine, messengers). Ma sempre in linea con la filosofia di mantenere la tecnica il più possibile naturale: solo in alcuni casi, tuttalpiù, si procede a centrifugazioni, per aumentare la concentrazione di una certa tipologia di cellule, o si favorisce in modo naturale l’espansione delle componenti staminali dopo il trapianto, applicando sulla superficie dell’organo una pompetta, che risucchiando i tessuti, consente loro di farsi meglio strada negli interstizi.

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