Assolto con formula piena. Dopo 15 anni di processi, le accuse a Mario Conte, ex magistrato antimafia del pool di Bergamo, si dissolvono in una formula: «Il fatto non costituisce reato». Così hanno dichiarato il 18 luglio i giudici del tribunale di Milano. L’ex magistrato, oggi giudice civile, non faceva parte di un’associazione a delinquere, né ha commesso alcun reato quando tra il 1991 e il 1997 ha firmato le carte che hanno permesso ai Carabinieri dei Ros di svolgere le loro indagini.
La storia del processo comincia nel 2005. È l’inizio del procedimento a carico dell’ex comandante dei Ros, il generale Giampaolo Ganzer, di cui questo è solo uno stralcio, aperto a causa delle cattive condizioni dell’imputato Mario Conte. Il generale dei Ros con altre 19 persone è accusato di associazione a delinquere, traffico internazionale di stupefacenti e un’altra serie di reati connessi allo svolgimento di sei operazioni: Cedro, Lido, Shipping, Hope, Cobra e Cedro Uno.
Il 12 luglio di due anni fa Giampaolo Ganzer viene condannato in primo grado a 14 anni di reclusione e al pagamento di una multa da 65mila euro per traffico internazionale di stupefacenti. Insieme a lui, ci sono altri 13 condannati. Nessuno, però, con l’accusa di associazione a delinquere. A settembre, comincerà il secondo grado e il generale ha deciso di rinunciare alla prescrizione per parte dei suoi capi d’accusa. Vuole uscire indenne da questa vicenda: non vuole che sia infangata la sua figura, né tantomeno l’immagine dei Ros.
Qualunque sia l’esito finale, la sentenza di primo grado del processo Ganzer delinea un metodo d’indagine, che anche se risultasse legale alla fine dei tre gradi di giudizio, pone un problema sul modo di condurre le indagini. È un metodo invasivo e brutale, senza scrupoli, che ricorre in modo costante a fonti interne agli ambienti criminali e all’infiltrazione di agenti sotto copertura. E che ha bisogno di ricorrere spesso a normative speciali, che solo un magistrato può disporre. È un metodo in cui a condurre le indagini è la polizia giudiziaria più che la magistratura.
Niente di strano, se non che ad un certo punto non si arriva più a distinguere la linea di confine tra chi combatte il crimine e chi lo commette. I Ros, si legge nella sentenza del 12 luglio 2010, hanno abusato di norme come il «ritardato sequestro», «l’acquisto simulato», «il ritardato arresto», «la consegna controllata», diventando un «gruppo dedito alla commissione di una serie indeterminata di illecite importazioni, detenzioni e cessioni di ingenti quantitativi di cocaina, eroina, hashish e pasta di cocaina, utilizzando la struttura, i mezzi, le relazioni e l’organizzazione dell’Arma dei Carabinieri, abusando della propria qualità di pubblici ufficiali». Con il solo scopo di fare carriera e conquistarsi le prime pagine dei giornali. Per quanto Mario Conte esca pulito dal suo processo, la sentenza del 18 luglio non cancella quanto finora è stato scritto nel corso del procedimento a Ganzer.
Nelle operazioni sotto accusa, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla Dea, l’agenzia antidroga di Washington. E non è un caso, dato che dall’altra parte dell’Oceano questi metodi sono ormai una consuetudine. Qualche volta, però, nelle indagini qualcosa va storto. Oppure gli infiltrati entrano talmente bene nella parte dei criminali da arrivare a riciclare denaro sporco per conto dei cartelli. L’ultimo caso eclatante è stato riportato in un’inchiesta che il mensile messicano Emeequis ha condotto con il New York Times.
Il titolo è “Il cartello della Dea” e la fonte è un documento a firma della cancelliera messicana Patricia Espinosa con cui viene concessa l’estradizione negli States di Harold Poveda, di mestiere intermediario tra Colombia e Messico per le partite di cocaina. La storia risale al 2007, quando l’informatore colombiano Juan Carlos Umbacia e l’agente sotto copertura UC-1 hanno trattato con il cartello messicano dei fratelli Beltràn Leyva. La loro fonte era proprio Harold Poveda. «Con la collaborazione della Dea e delle autorità messicane – scrive Emeequis – , i narcos colombiani hanno spostato quasi 2,5 milioni di dollari dal Messico agli Stati Uniti». Bank of America, Hsbc, Total Bank e tanti altri: gli istituti di credito americani erano pieni dei soldi riciclati dalla Dea per conto dei narcos. Denaro che i cartelli hanno reinvestito in armi e mezzi con i quali hanno ucciso e trasportato droga al di là dei confini americani.
«Se la Dea utilizza denaro pubblico per infiltrarsi nelle attività criminali, non le sta contemporaneamente finanziando?», si domanda il professor Bruce Bagley, esperto di narcotraffico e sicurezza dell’università di Miami. «Vale la pena – prosegue – che un governo come quello statunitense corra il rischio di finanziare qualche attività illecita? Io dico di no».