Chiuse per sciopero. Così i correntisti di Intesa Sanpaolo rischiano di trovare oggi, 2 luglio, la maggior parte delle 5.600 filiali italiane se, come immaginano i sindacati, l’adesione alla prima mobilitazione della storia dell’istituto creditizio sarà massiccia. Colpa, indirettamente, del ministro del lavoro Elsa Fornero, che tra riforma delle pensioni prima e decreto sugli esodati dopo, non ha fatto sconti nemmeno a una delle categorie tradizionalmente più tutelate in Italia, quella dei bancari. E ora a rimetterci, ironia della sorte, sarebbero proprio i dipendenti del gruppo di cui il ministro era ai vertici (in qualità di vice presidente del Consiglio di Sorveglianza) prima di entrare nel governo Monti.
Tutto nasce dalla decisione della banca di richiamare al lavoro 561 esodati che hanno risolto il rapporto di lavoro tra il 31 dicembre 2011 e il 31 maggio 2012, ma che non rientrano nei 17.700 lavoratori del settore bancario tutelati dall’Inps, stando, almeno, al decreto Fornero dei primi di giugno. Fin qui niente di male. Non fosse che a pagare, spiega la Fabi, a nome delle sette sigle sindacali presenti in azienda, (Dircredito, Fabi, Fiba-Cisl, Fisac-Cgil, Sinfub, Ugl e Uilca) saranno tutti gli altri dipendenti del gruppo (circa 60 mila, la metà dei quali occupati agli sportelli) su cui verranno scaricati i 250 milioni di risparmi al costo del lavoro che Intesa Sanpaolo si era prefissata con il piano industriale dell’aprile 2011 e che ora, in un modo o nell’altro, devono saltare fuori.
Come? Con la chiusura di mille filiali, dicono ancora i sindacati, con l’azzeramento di una serie di garanzie previste dagli accordi integrativi, come indennità di trasferimento, flessibilità oraria, part time, avanzamenti professionali e così via. Fino all’ipotesi più drammatica dei licenziamenti collettivi. Per la serie d’ora in avanti, anche i bancari piangeranno. Non senza tentare, però, la prova di forza. Così andrà in scena il primo sciopero da quando il gruppo bancario è nato nel 2007, in seguito alla fusione tra la milanese Intesa e la torinese Sanpaolo. La Fisac Cgil si aspetta adesioni che sfiorino il 90% nelle filiali, in genere più inclini a protestare rispetto alle sedi centrali.
All’annuncio della mobilitazione l’istituto di credito ha risposto attraverso uno dei suoi portavoce: «I vertici aziendali di Intesa Sanpaolo hanno preso atto della decisione delle rappresentanze sindacali di proclamare una giornata di sciopero, decisione registrata con attenzione e rispetto».
Ma la banca ribadisce «la propria posizione che nasce dall’esigenza di considerare il piano d’impresa presentato lo scorso anno alla luce di un quadro di riferimento mutato in maniera significativa, dopo la riforma previdenziale del dicembre 2011 che ha, di fatto, svuotato di contenuto l’accordo raggiunto tra la banca e i sindacati nel luglio del 2011 e attraverso il quale si erano condivisi gli obiettivi di riduzione strutturale del costo del lavoro».
Come a dire: gli accordi erano diversi, è vero, ma il ministro Fornero ha cambiato le regole del gioco e non possiamo che adeguarci.
Il piano industriale 2011-2013 prevedeva, infatti, una riduzione degli organici di 3 mila unità, tra pensionamenti e uscite volontarie, anche con il ricorso al fondo di solidarietà di settore, e la riqualificazione di altre 5 mila unità (persone che, ad esempio, dalle attività di filiale sarebbero state dirottate su mansioni commerciali). Con l’obiettivo dichiarato di ridurre di almeno 300 milioni entro il 1° gennaio 2014 il costo del lavoro, per migliorare redditività e ricavi. Un accordo con i sindacati firmato il 29 luglio scorso aveva raccolto oltre 5.600 mila adesioni, dunque ben più del necessario, tra pensionamenti veri e propri ed esodi volontari, dipendenti cioè tra i 54 e i 60 anni, ben contenti di risolvere anticipatamente il rapporto di lavoro.
Solo che poi sono arrivati il governo Monti, la riforma delle pensioni, il balletto di cifre sugli esodati, rimasti appunto senza stipendio, ma ancora privi di copertura previdenziale, e lo scenario è mutato. In una lettera ai sindacati datata 18 giugno, Intesa Sanpaolo spiega che di tutte le uscite previste, solo 800 sono effettive, quelle cioè legate ai pensionamenti. Tutti gli altri potenziali esodi, senza sapere se e in quale misura rientrino nei 65 mila tutelati dal decreto Fornero, oppure facciano parte della platea degli oltre 300 mila esclusi (secondo le cifre dell’Inps), sono da ritenersi sospesi. Anche perché il decreto del 2 giugno esclude dall’insieme dei lavoratori coperti dalle vecchie regole previdenziali gli esodi bancari successivi al 4 dicembre 2011.
Di qui l’annuncio dell’istituto di credito di richiamare addirittura al lavoro 561 dipendenti, nel frattempo usciti, grazie al fondo di categoria. Così facendo, però, la banca realizza solo 50 milioni di risparmi dei 300 previsti dal piano industriale. Gli altri 250 milioni? Si riserva di ottenerli, si legge ancora nella comunicazione ai sindacati, «utilizzando tutti gli strumenti di legge e di contratto, tra i quali, a titolo esemplificativo, sospensione dell’attività e riduzione di orario, revisione del sistema degli inquadramenti e attribuzione delle mansioni, mobilità territoriale». Cioè la fine delle generose tutele previste dagli accordi integrativi del gruppo bancario scaduti, non a caso, a fine giugno. Il timore delle parti sociali, inoltre, è che il rientro degli esodati, ammesso che il lavoro che svolgevano ci sia ancora, e la rinuncia al fondo di solidarietà come ammortizzatore sociale aprano la strada a licenziamenti collettivi, a cominciare dagli ultimi assunti (tendenzialmente i più giovani). Sarebbe un bel guaio per la “ex”banca del ministro del lavoro.