La concertazione blocca il Paese? Sì, se le parti fanno politica e impongono veti

La concertazione blocca il Paese? Sì, se le parti fanno politica e impongono veti

«La concertazione? Ha generato i mali contro cui lottiamo oggi», ha detto il presidente del Consiglio Mario Monti nel suo intervento all’assemblea annuale delle banche. Lo dice e rompe un antico tabù, crea scompiglio e solleva polemiche. Se l’operato del governo, ha spiegato Monti, è buono, sostiene, è anche perché è deciso ad agire anche con «innovazioni nel metodo». Una posizione che a Bersani non piace e nemmeno alla Camusso, com’è ovvio. Squinzi preferisce non commentare, adducendo problemi alla gola. Addio concertazione, allora. Secondo Monti «le parti sociali devono comunque essere consultate, ma non devono essere soggetti cui il governo dà in outsourcing la responsabilità politica». Insomma, ha smosso le acque, e iniziato una rivoluzione, forse.

Secondo Mimmo Carrieri, docente ordinario di Sociologia economica e del lavoro nell’Università di Teramo, però, queste parole sono «esagerate. La concertazione non è la madre dei nostri mali». Una posizione condivisa anche da Maurizio Dal Conte, professore associato di diritto del lavoro e docente di diritto privato e di diritto del lavoro alla Bocconi.

Il punto è anche storico. «Negli anni ’90 la concertazione ha avuto un ruolo fondamentale, nel momento in cui si trattava di rimettere a posto i conti per riuscire ad aderire a Maastricht», spiega Dal Conte. Sono gli anni del protocollo voluto da Ciampi nel 1993, cui si sono attenuti «Si può dire che senza la concertazione, che ha permesso di contenere le dinamiche salariali per abbattere l’inflazione, noi non saremmo nella moneta unica».

Uno strumento importante che però «nel corso del tempo ha conosciuto distorsioni», continua il professor Dal Conte. Via via, le parti sociali hanno cominciato a chiedere di fissare l’agenda, quasi a voler scrivere la legge prima sui tavoli e poi farla ratificare al Parlamento. Una posizione che Silvio Berlusconi, nel 2002, non ha accettato. Ha fatto saltare il tavolo e andato solo con chi ci stava. «La conferma che la concertazione “stile anni ’90” era finita e nemmeno i tentativi di Romano Prodi hanno saputo riportarla in auge», conclude il professore.

Di sicuro, nel metodo i difetti ci sono. «Con la concertazione, si rischia la paralisi politica», spiega Dal Conte. Soprattutto quando ci si concentra sul diritto di veto. E poi può esserci anche un deficit di rappresentanza, quando le parti sociali chiamate a discutere con il governo non rappresentano davvero le componenti di cui sono riferimento. «Un limite reale, lo avvicina al corporativismo e andrebbe affrontato con attenzione – dice Carrieri – lo si può attenuare coinvolgendo di più il parlamento e con verifiche di rappresentanza delle parti sociali», anche per stabilire la linea comune. Al momento, però, «Monti vede con insofferenza questa procedura, e la sua è una posizione apprezzata nel mondo dei mercati finanziari», continua Carrieri. «Ma forse sarebbe più opportuno preoccuparsi del consenso sociale. Non mi preoccuperei del veto delle parti sociali, quanto di quello di tassisti e farmacisti. Che blocca tutto davvero» spiega.

Il confonto, allora, resta «necessario», e «lo ha dimostrato la riforma del lavoro», spiega il bocconiano Dal Conte. Cioè? «Procedere senza la concertazione ha comportato gravi limiti della riforma, problemi con cui ora si deve fare i conti. Quello degli esodati, è il più pubblicizzato, ma non è il più grave», spiega. «Con il confronto con le parti, questo non sarebbe successo, e avrebbe risparmiato una magra figura al Paese». Magra? «Lo dico per esperienza personale, ma spesso mi capita che i colleghi stranieri facciano battute sul numero degli esodati: “Allora, li avete contati?”. All’estero fa un po’ ridere». Insomma, «quello che sembra importante sottolineare è che lo strumento è valido, ma l’uso è fondamentale». Cioè evitare intenzioni distorsive, sia da parte delle componenti sociali sia da parte del governo.

«L’importante è capire che il compromesso, cioè la sintesi delle parti, non è un insuccesso della politica, ma è la sua anima». Che le parti esprimano i propri interessi, allora «è del tutto legittimo. L’obiettivo è saperle comporre, insieme. E forse qui si vede un atteggiamento professorale (una categoria che mi riguarda) e che è molto diverso da quello del politico, quello di credere di sapere quello che serve. E considerare ogni accordo un freno, invece che un successo della politica», conclude Dal Conte.