La sfera emozionale è sempre appartenuta alla politica, fin da tempi antichi. E in questi ultimi anni, per citare una delle più straordinarie avventure politiche mai conosciute, “l’audacia della speranza” ha condotto un semi-sconosciuto senatore dell’Illinois fino alla Casa Bianca. Un sentimento, divenuto collettivo, cha stava prima del concreto progetto di governo, pur presente, che si sta oggi realizzando.
Ma se volgiamo lo sguardo all’Italia, l’Italia di oggi, a meno di un anno da una sfida elettorale decisiva, per il futuro economico e non solo del Paese, quale è il sentimento che domina la classe politica italiana e quella di centrosinistra in particolare? La risposta non necessita di scomodare Freud, alcuni chiari indizi conducono ad una precisa diagnosi.
Se l’intera classe politica appare ripiegata su se stessa ed incapace di approcciare problemi che paiono molto più grandi del piccolo cabotaggio a cui sono avvezzi i leader dei vari partiti, sembra però che il maggiore partito italiano sia guidato in azioni e pensieri da un sentimento pericoloso per chiunque faccia politica: la paura. Si tratta di una constatazione che parte dall’atteggiamento attendista ed oscillante dei leader Pd nei confronti del tema stesso delle primarie e di uno dei possibili competitor.
Tattiche dilatorie, dichiarazioni scomposte e ai limiti dell’insulto nei confronti di un candidato, allo stato, solo potenziale, tradiscono molto più di un semplice nervosismo. Non sembra eccessivo parlare di paura, anche se va precisato che, purtroppo, non è un sentimento circoscritto ad una persona e a una competizione che si cerca di evitare. Piuttosto il timore della competizione è l’elemento rilevatore di come la paura sia divenuta guida delle azioni o meglio delle non-azioni, delle decisioni o meglio delle non-decisioni. Incertezze costanti che non consentono di assumere quasi mai una posizione netta, che si parli di unioni civili, di spending review, di riforma previdenziale, o di riforma elettorale. Si preferisce dire e non dire, rimandare, schermarsi dietro più o meno simpatiche battute. Alla base di questo atteggiamento c’è qualcosa più di una semplice difficoltà politica.
Soprattutto se vista con gli occhi delle nuove generazioni, quella dei leader Pd è paura, più o meno conscia, di non comprendere più il mondo che li circonda, di non avere più le lenti adatte per guardarlo e per decifrarlo, tanto se si parla di lavoro, quanto di relazioni sindacali, di innovazione tecnologica, di “Amministrazione di risultato”, di Open data, di green economy.
Questo è il sentimento e questi sono i motivi che spingono Bersani, Bindi, D’Alema, Marini e altri, solo anagraficamente più giovani, a ricorrere a discutibili tattiche a proposito di data e regole delle primarie e all’offesa quotidiana nei confronti di Matteo Renzi. Al di là delle antipatie personali di alcuni, anche a questo proposito, è la paura il sentimento dominante nei confronti del possibile avversario.
Occorre anche qui una precisazione però: è solo paura di una persona e di una eventuale sconfitta? È più plausibile ritenere che Renzi, per idee, progetti, comunicativa, e persino per modo di fare, rappresenti, agli occhi della vecchia guardia, l’incarnazione di quel “nuovo mondo” del quale più o meno consciamente hanno paura.
La domanda che occorre porsi quindi, è se sia concepibile che un leader, Bersani, e il gruppo che lo sostiene, da qualcuno ribattezzato patto di sindacato, si candidi a guidare un Paese ed il suo futuro quando il sentimento che ne determina pensieri azioni e parole, non è la speranza, ma la paura; il ripiegamento su se stessi piuttosto della audacia della sfida.
Per scomodare una autorevole figura si dovrebbe rammentare che: “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa” (Franklin D. Roosvelt). E allora ricordiamolo ai nuovi leader, accertato che per gli altri è troppo tardi.