A dei livelli di sviluppo molto bassi la finanza nemmeno c’è. Esistono i mercati, come si vede andando in qualsiasi paese poverissimo, ma non esiste il credito. Al mercato si compra il mango, ma un potenziale imprenditore di manghi non saprebbe come commercializzarli su larga scala. Avesse anche dei terreni, non potrebbe darli in garanzia (= collaterale) alla banca, perché manca un sistema formale di proprietà. Per questa ragione alcuni pensano che per uscire dalla povertà si debbano far emergere i collaterali, ossia i beni che già esistono ma che non sono legalmente riconosciuti.
A dei livelli di sviluppo intermedi, invece, la finanza gioca un gran ruolo. Gli investimenti sono decisi individualmente dagli imprenditori (dunque non esiste un investimento preordinato, un Piano), i quali non hanno i mezzi sufficienti per materializzare i propri intendimenti: ecco che si indebitano con le banche, emettono azioni, e obbligazioni. Il capitalismo è il sistema economico dove gli imprenditori investono grazie al finanziamento di terzi, che a sua volta passa dal sotto sistema finanziario. Se questa definizione del capitalismo è giusta, allora la distinzione fra l’economia reale – quella “buona”dove si producono cose utili con il sudore e la passione – e quella finanziaria –quella “cattiva” dove si producono cose inutili mossi dall’avidità – è utile ai fini analitici e anche polemici, ma in realtà non c’è.
A dei livelli di sviluppo molto elevati (la cui misura è un reddito pro capite alto e un sistema finanziario di gran peso) la finanza ha ancora un ruolo positivo – ossia aiuta lo sviluppo economico – oppure lo perde? A questa domanda prova a rispondere uno studio del Fondo Monetario Internazionale, dal titolo significativo di “Too Much Finance?”.
La risposta al quesito che viene subito in mente è No. Siamo, infatti, nel bel mezzo di una grave crisi finanziaria, la cui cura frena l’economia reale. Il che sembra ovvio, ma non è proprio vero. In Spagna, per esempio, hanno costruito con il credito bancario una quantità impressionante di case, con ciò spingendo l’economia reale. Ne hanno costruite talmente tante, che per venderle tutte ci vorranno anni. Intanto gli spagnoli e gli altri membri dell’euro area devono risanare i bilanci delle banche, che sono immerse nei cattivi crediti del settore edilizio. Dunque in Spagna la finanza ha prima spinto la crescita, e poi la ha frenata. La risposta spontanea No va quindi sfumata. Si deve dare una risposta al quesito tenendo conto del “ciclo”. La finanza prima “dà” e poi “toglie”. Il risultato finale è positivo o negativo?
Lo studio del Fondo Monetario analizza il contributo della finanza alla crescita economica attraverso il credito al settore privato delle imprese. Viene fuori che il suo contributo è positivo fino a un certo livello – con il credito al settore privato fra l’80 e il 100 per cento del PIL – e poi smette di esserlo. La relazione statistica è quella del contributo decrescente, ma questa dice nulla su che cosa sia “causa” e che cosa “effetto”. Perché la finanza smette a un certo punto di contribuire allo sviluppo? Perché diventa un costo che supera i vantaggi? Nello studio sono elencati i molti punti di vista sulle cause, senza dichiarare quello preferito. Insomma, non sappiamo ancora perché si abbia questo contributo decrescente.
Una lettura alla fine inutile? No, lo studio sembra, ma non è innocente. Se, infatti, il credito al settore privato delle imprese smette da un certo punto in poi di contribuire alla crescita, allora il punto di vista delle banche non è sostenibile. L’idea – nota come le regole di Basilea III – di stringere i criteri di erogazione del credito – un minor rapporto fra attivo e capitale di rischio, ossia una riduzione della famigerata leva – è stata contestata dalle banche. Esse sostengono che in questo modo si riduce il credito all’economia e dunque si ottiene un peggior andamento delle cose. Ma se il contributo del credito allo sviluppo da un certo punto in poi smette di esserci, l’obiezione non vale.