“Ogm e chilometro zero non sono nemici. Anzi…”

“Ogm e chilometro zero non sono nemici. Anzi...”

Ogm, Organismi geneticamente modificati. Basta questo nome per mettere paura a tanti in Italia. Non a caso nel nostro Paese non esistono coltivazioni agricole in cui siano stati inseriti geni estranei alla pianta, se non nei laboratori scientifici. Ma, come membro dell’Unione europea, l’Italia è obbligata a recepire le direttive comunitarie in materia, che autorizzano l’uso di Ogm sia nell’alimentazione umana sia in quella animale. Se pannocchie e soia geneticamente modificate non vengono quindi coltivate in Toscana o nella pianura Padana, che a Milano ospiterà nel 2015 un Expo dall’ambizioso titolo “nutrire il pianeta”, non è possibile comunque vietarne l’importazione. E i cibi geneticamente migliorati, nonostante le paure e le resistenze, arrivano lo stesso sulle nostre tavole. Visto che gran parte dei mangimi utilizzati negli allevamenti italiani è prodotta da soia e mais geneticamente modificati. Ma perché gli Ogm fanno così paura? E sono davvero pericolosi come molti credono? «Non solo non sono pericolosi», risponde Anna Meldolesi, biologa e giornalista scientifica, «ma sono anche più sicuri del cibo convenzionale, perché non richiedono l’uso di pesticidi e sviluppano minori quantità di micotossine, dannose per il nostro organismo». Un bello stimolo a non mettere in competizione ricerca scientifica, tecnologica e alimentazione, ma a farle camminare insieme, anche adesso che si entra nel vivo del dibattito, anche culturale, che porterà Milano ad ospitare Expo 2015.

Ogm e cibo di qualità, anche quando si parla del tema “Nutrire il Pianeta” che darà titolo a Expo 2015, vengono messi sempre in contraddizione. È giusto?
Nell’immaginario comune l’intervento tecnologico sui cibi e la qualità vengono posti sempre in contrasto. E invece non lo sono. Una spiegazione dello sviluppo di questo pensiero può essere il fatto che la prima generazione di cibi biotech era composta soprattutto da commodities come mais, colza, soia o cotone, produzioni massificate buone soprattutto come mangimi animali. È chiaro che se gli Ogm sono approdati nell’agricoltura con queso tipo di coltivazioni è soprattutto per motivi prettamente economici, legati a una maggiore richiesta del mercato e alla possibilità di una produzione in grandi numeri.

Sta dicendo che qualitativamente il mais Ogm è paragonabile ai prodotti locali a chilometri zero?
Non ha senso confrontare il mais o la colza Ogm con la cipolla di Tropea o altri prodotti locali. Si tratta di cose molto diverse tra loro. Ha senso invece confrontare il mais Ogm con il mais non Ogm e su questo si può discutere. E dico che, tra i due, io preferisco di gran lunga quello Ogm perché viene garantita una maggiore qualità. Innanzitutto non c’è bisogno della applicazione di pesticidi perché, essendo la pianta geneticamente modificata, non viene in questo modo attaccata dai parassiti. In più contiene una minore quantità di micotossine, che sono prodotte da funghi e parassiti. Queste tossine proliferano proprio nelle gallerie prodotte dai parassiti. È per questo che, sviluppando resistenze agli insetti, anche le tossine sono meno presenti negli alimenti Ogm. E questo ha un effetto positivo per la nostra salute. Le micotossine sono cancerogene e alcuni studi dicono anche che sono in grado di superare la barriera della placenta, creando malformazioni sul feto. Per cui, potendo scegliere, io scelgo una polenta fatta con mais Ogm anziché quella fatta con il mais convenzionale. Sono i dati a dire che è più sicuro. In particolare, poi, in Italia c’è un grosso problema con le micotossine. Il loro sviluppo è favorito dal nostro clima e spesso nelle nostre coltivazioni i livelli di micotossine superano i livelli di sicurezza consentiti, tanto che in teoria non potrebbero essere mangiati ma magari utilizzati solo per la produzione di energia.

Ma le biotecnologie sono applicabili solo alle commodities o no?
Non solo con mais o colza, le biotecnologie possono essere anche applicate ai prodotti locali, a quello che viene definito il chilometro zero. Biotecnologie e chilometri zero non sono concetti contrastanti. Lo ha dimostrato nella sua vita Francesco Sala, biologo dell’Università di Milano scomparso lo scorso novembre. Sala ha spiegato come il made in Italy e i prodotti tipici italiani possano essere salvati dai problemi legati ai parassiti e alle malattie virali, che li rendono non competitivi economicamente e rischiano di farli scomparire, proprio con le modificazioni genetiche delle sementi. Le mele della Val D’Aosta, ad esempio, vengono attaccate da un parassita per il quale l’unica soluzione attuabile sarebbe quella della rimozione a mano. Tanto che in passato in questo tipo di frutteti venivano usati i bambini. Oggi, ovviamente, questo non è pensabile. Se si vuole salvare la qualità, la specificità, il sapore locale e risolvere i problemi dei parassiti senza pesticidi, l’unica soluzione è agire in maniera tecnologica. Ma in Italia questo non è possibile e così le mele coltivate nelle serre sperimentali di Francesco Sala non hanno mai lasciato i suoi laboratori. Dobbiamo capire quanto i campi e le tavole, anche e soprattutto in Italia, avrebbero da guadagnare dall’aiuto della scienza.

A questo punto viene da chiedersi perché esiste una percezione così negativa degli alimenti geneticamente modificati.
Le biotecnologie arrivano per la prima volta nel 1996, quando si comincia a parlare di Ogm. Il momento storico non era proprio favorevole perché da poco era esploso il caso del virus della cosiddetta mucca pazza, l’encefalopatia spongiforme bovina, che creò un clima di paura e sfiducia verso la tecnologia alimentare e i rischi per la salute. Era una fase di spaesamento, basti pensare che la clonazione della pecora Dolly è del 1997. Si parlava molto di naturale e innaturale, si evocava il fantasma di Frankenstein. In più si trattava di un momento di debolezza del comparto agricolo europeo: in quegli anni si parlava di una riforma della Politica agricola comune (Pac) e venivano addirittura messi in discussione i sussidi. Di fronte a questi prodotti geneticamente modificati, che provenivano soprattutto dall’America, si pensò che l’Europa non avrebbe potuto reggere la competizione. I timori sui rischi degli Ogm sono infondati. Sono tredici anni che milioni di persone consumano Ogm, senza che si sia mai verificato un problema né sui consumatori né sull’ambiente. La domanda da porsi è: “Gli ogm sono più pericolosi degli alimenti che noi chiamiamo convenzionali?”. La risposta è che gli Ogm non solo non sono più pericolosi ma sono anche più sicuri, perché sottoposti a una serie di controlli che invece non vengono effettuati per i cibi convenzionali.

Quindi prima del 1996 la tecnologia genetica non esisteva in agricoltura?
Prima di quel momento non si parlava di innovazione tecnologica in agricoltura, ma questo non significa che non esistesse. La scienza non arriva nelle coltivazioni con gli Ogm. La “rivoluzione verde” (l’accoppiamento di varietà vegetali geneticamente selezionate con dosi di fertilizzanti, acqua e altri prodotti agrochimici, ndr) risale agli anni Quaranta. Il miglioramento genetico delle piante è partito insomma diversi decenni fa. L’Italia, ad esempio, era molto brava in questo durante il ventennio fascista, producendo raccolti più abbondanti e più resistenti. La differenza tra Ogm e i metodi alternativi tuttora usati, come la mutagenesi, è che questi altri metodi si basano su mutazioni casuali del codice genetico e non si sa bene cosa possa accadere. L’ingegneria genetica, invece, è più precisa e prevedibile: tu sai cosa stai facendo e dove, sposti un singolo gene in maniera quasi chirurgica. Il problema è che ci si è accorti delle innovazioni tecnologiche in agricoltura solo con gli Ogm. Si deve capire, invece, che l’agricoltura è artificiale di per sé. Non è qualcosa di naturale e arcaico, come spesso viene percepita, ma si basa su un miglioramento genetico che va avanti in maniera continua dalla preistoria a oggi con le tecniche che via via l’uomo è stato in grado di inventare.

Ma l’opposizione di ambientalisti ed ecologisti agli Ogm è stata ed è tuttora molto forte. Anche quando si discute di manifestazioni internazionali che hanno a tema l’alimentazione, come Expo 2015, il “no su tutti i fronti” pare serrato. 
Gli anni in cui si comincia a parlare di Ogm sono anche gli anni in cui si sviluppa il movimento ecologista, saldandosi con il movimento no-global. Ci sono interessi diversi che sono coagulati intorno alla battaglia contro gli Ogm. Il corporativismo di alcuni soggetti economici ha portato all’utilizzo sbagliato di una tematica, come quella delle modificazioni genetiche, molto efficace a livello mediatico. Si è fatto e si fa leva sui pericoli per la salute e per l’ambiente, cosa che ha fatto diventare gli Ogm uno spauracchio per molti. Questo va unito alla incapacità di reazione da parte della comunità scientifica, soprattutto italiana, che non ha saputo gestire questa campagna mediatica negativa. Insomma è stata una tempesta perfetta a cui si sono sommati interessi e contingenze storiche diverse, unite a politiche autolesionistiche da parte delle multinazionali che hanno gestito la critica massiccia agli Ogm con una comunicazione sbagliata, finendo per apparire insensibili. Si è data l’idea che si volessero costringere i consumatori ad accettare l’arrivo di questi prodotti anziché convincerli della qualità dei prodotti stessi.

Eppure i fautori degli Ogm dicono le coltivazioni geneticamente modificate possano favorire lo sviluppo dell’agricoltura anche in zone desertificate. È davvero così?
Se mi dicono che gli Ogm possano risolvere il problema della fame nel mondo, io rispondo che non è vero. Certo, possono favorire lo sviluppo dell’agricoltura in alcune zone difficili. Nel caso dell’Africa, ad esempio, dobbiamo pensare che questo continente è stato tagliato fuori dalla rivoluzione verde e dall’avvento delle innovazioni tecnologiche nelle coltivazioni. E per decenni ha avuto una produzione stagnante. In Africa, invece, c’è bisogno proprio della innovazione tecnologica per avere un balzo di produttività. Gli Ogm possono risolvere problemi specifici, come le ondate di siccità. Ma se il cibo non arriva a tutti, questo è un problema della distribuzione e della equità di quesi Paesi, che gli Ogm ovviamente non possono risolvere.

Una delle obiezioni contro gli Ogm è che la loro assunzione metterebbe a rischio la salute umana.
C’è un consenso scientifico internazionale, dall’accademia dei Lincei alle agenzie americane, sul fatto che i cibi Ogm non sono più rischiosi dei cibi convenzionali. Si usa questa formula del confronto tra le due tipologie di cibi per definirne la sicurezza, perché il rischio zero non esiste nel modo di parlare scientifico. E questa cosa spesso viene travisata nel parlare comune. Ma i cibi migliorati geneticamente non hanno rischi diversi da quelli convenzionali. A dirlo è anche una comunicazione della Commissione europea del 2006, che riassume dieci anni di studi finanziati con i fondi europei e che ribadisce come gli Ogm non siano meno rischiosi per la salute umana dei cibi prodotti senza ingegneria genetica. 

E i rischi sulla biodiversità e l’ecosistema di cui parlano gli ambientalisti?
Questo è un discorso trappola. Perché è vero che i contadini tendono a coltivare le tipologie più produttive e resistenti, ma questo è sempre accaduto. Sulle conseguenze sull’ecosistema, ci sono studi che dimostrano come la presenza di coltivazioni Ogm non danneggi ma addirittura abbia effetti benefici sulle altre coltivazioni non Ogm, poiché tende ad allontanare i parassiti. L’effetto sui parassiti e gli insetti è lo stesso che si può ottenere con i pesticidi o con gli antibiotici nel caso dei virus. Il parassita col tempo sviluppa una certa resistenza e allora si troverà un’atra formula per combatterlo. Non è niente di diverso di quello che è finora avvenuto nella scienza: quando l’uomo si contrappone agli organismi patogeni, c’è bisogno sempre di una evoluzione della battaglia perché i patogeni cercano di sempre di farla franca.

Qual è la situazione della ricerca sugli Ogm in Italia?
Sappiamo che il 30% delle persone vorrebbe gli Ogm. Ma, come abbiamo detto, c’è anche una forte opposizione contro questo tipo di coltivazioni. Certo, se chiedi a qualcuno “Vuoi mangiare Ogm?”, quello ti risponde di no. Ma se chiedi ai consumatori qual è la principale preoccupazione delle persone quando devono acquistare cibo, nessuno ti risponde “gli Ogm”. L’Italia nella percezione negativa per le coltivazioni geneticamente modificate in questo è nella media, ma nel nostro Paese c’è una volontà minore da parte della politica di occuparsi del problema e provare a risolverlo. Qui siamo ancora fermi ai tempi di Pecoraro Scanio, che quando era ministro bloccò tutte le sperimentazioni in campo agricolo. La ricerca in questo campo in Italia è stata considerata un argomento sacrificabile, perché è impopolare politicamente, qualcosa che non porta consenso ma solo attacchi. Le lobby antibiotech in Italia sono di gran lunga prevalenti, tanto che alcune multinazionali presenti sul nostro territorio stanno lasciando l’Italia. La ricerca in questo settore, insomma, non esiste. Anche gli enti privati hanno chiuso i battenti. L’ultimo caso è quello del laboratorio sperimentale dell’università della Tuscia, a Viterbo. Dopo la segnalazione della Fondazione dei diritti genetici, lo scorso giugno il ministero dell’Ambiente ha ordinato la distruzione degli alberi geneticamente modificati su cui i ricercatori avevano lavorato per più di dieci anni.  

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