Un dirigente ucciso dai lavoratori, capannoni in fiamme, violenze contro la polizia. Tra arresti (circa un centinaio) e feriti (almeno una settantina), la tensione allo stabilimento della Maruti Suzuki di Manesar, a pochi chilometri da New Delhi resta altissima: da tre giorni i tremila operai sono sul piede di guerra contro l’azienda, a causa di una vertenza su salari e i contratti. Gli scontri nello stabilimento, sorti a causa di un litigio tra due operai e un dirigente, si sono trasformati in una guerra che ha distrutto uffici e macchinari ed è finita nell’incendio che ha ucciso Awanish Kumar Dev, responsabile delle risorse umane.
La tensione alla Maruti Suzuki ribolliva da tempo. Una questione che riguarda i salari, definiti bassissimi dai sindacati e l’accusa, strisciante, di discriminazione di casta compiuta dall’azienda. La chiusura forzata ha pesato in borsa (con un -7%), ma non è il primo problema che la Maruti Suzuki deve affrontare. L’azienda, fra le principali nel mercato delle auto indiane, nel corso di un decennio è riuscita a conquistare più del 40% del mercato delle auto private. Ora, a causa di alcune agitazioni sindacali dello scorso dicembre durati oltre sessanta giorni, c’è stata una flessione della produzione, e la Maruti Suzuki subisce i morsi della concorrenza di Honda, Toyota e Ford, che stanno cercando di guadagnare quote di mercato.
Un contrasto sociale mai risolto, che esplode con violenza in tutta l’India, con scioperi e manifestazioni proprio nel momento, dal punto di vista economico, più cupo per il paese. Le stime del primo trimestre del 2012, diffuse dall’Ufficio centrale di statistica, parlano di una crescita del 5,3%, cioè ai minimi da nove anni, sotto la soglia di sicurezza del 6% e soprattutto lontani dal 9,2% dell’anno scorso. L’India non cresce più: il miracolo di Manmohan Singh, compiuto ventun anni fa sotto le pressioni del Fondo Monetario Internazionale, sembra esaurito. Singh, allora, da ministro delle Finanze, aveva afferrato un’India che stava per precipitare nel baratro e inaugurato una stagione di riforme economiche, impopolari ma necessarie: deregulation, apertura a investitori internazionali, privatizzazioni, riforma del sistema fiscale, ponendo le basi per il boom degli ultimi dieci anni.
Solo che ora l’India non ce la fa più: il Pil pro capite, secondo le stime del Fmi del 2011, si aggira sui 3mila dollari all’anno, un livello che non si discosta dall’Africa subsahariana. La crescita ha coinvolto solo pochissime persone. L’inflazione, intanto, è aumentata, raggiungendo il 7,25% dello scorso giugno. Una situazione che sta creando problemi al governo, di Manmohan Singh (ancora lui, ma stavolta premier) in difficoltà su più fronti. Il nervosismo è palpabile, e si vede. È bastata la copertina di Time, del 7 luglio, per far scoppiare una polemica nazionale. Il magazine americano aveva definito Singh “the underachiever”, sottolineando come non riuscisse a ottenere i risultati che si era prefissato.
«L’India ha bisogno di rilancio», scriveva il settimanale: «Il primo ministro Singh è all’altezza del compito?». E continua: «Le leggi che potrebbero aiutare la crescita e i posti di lavoro restano bloccate in parlamento, scatenando il presentimento che i politici abbiano perso di vista i loro obiettivi principali, per guadagnare voti con misure populiste dall’efficacia a breve termine». Le reazioni sono state fortissime: «Guardino prima agli Usa e all’Europa», aveva detto Kamal Nath, ministro per lo Sviluppo. Anche Manish Tewari, portavoce del Congress Party, il partito di Singh, ha detto la sua: «Negli ultimi otto anni il governo ha fornito all’India stabilità politica, coesione sociale, armonia interna, sviluppo economico e un ruolo di primo piano negli affari internazionali. Tutto questo non può essere definito “scarso rendimento”». E non è mancata la ripicca, con Outlook, settimanale indiano, che utilizza la stessa espressione per etichettare il presidente americano. “Obama, the underachiever”. Non hanno perdonato.
Ma, nervosismo a parte, i problemi ci sono. Gli investitori stranieri, per conquistare l’India, hanno difficoltà. Oltre ai dazi, l’economia è ancora in gran parte sotto il controllo dello Stato. Alcuni passi sono stati fatti, ma molti sono ancora da fare. Come, ad esempio, un’ampia liberalizzazione della distribuzione al dettaglio: problema spinoso che aveva sollevato lo stesso presidente Usa Barack Obama in un’intervista al Press Trust of India: «In troppi settori, come la distribuzione a dettaglio, l’India blocca o limita gli investimenti stranieri, che sono necessari per creare posti di lavoro in entrambi i paesi». Il riferimento, non troppo velato, è a Wal Mart, che da tempo vuole sbarcare in massa in India, ma trova di fronte a sé difficoltà di ogni genere. Ma la politica indiana si è chiusa a riccio. Come ha detto Veerappa Moily, ministro per i corporare affairs, «certe lobby internazionali come Vodafone stanno diffondendo questa storia, e Obama non è stato informato bene su quello che succede qui, soprattutto se si guarda che i fondamentali dell’India sono forti». Complottismi al limite della paranoia. E questo spiega meglio di qualsiasi altra cosa lo stagnamento della politica e di un’intera classe dirigente, proprio mentre fuori i dissesti sociali stanno cominciando a diventare pericolosi.