Se Taranto si ferma, anche l’Ilva di Genova deve chiudere

Se Taranto si ferma, anche l'Ilva di Genova deve chiudere

Una vera e propria catena di montaggio. E se salta un tassello, addio anche al resto. È quello che potrebbe succedere agli stabilimenti Ilva di Genova se il gigante della siderurgia di Taranto spegnerà i suoi altiforni dopo il sequestro dell’area a caldo stabilito ieri dal giudice per le udienze preliminari Patrizia Todisco. La direzione genovese ha convocato la rappresentanza sindacale unitaria per annunciare ufficialmente quello che nel porto ligure già si poteva immaginare: in caso di chiusura dello stabilimento pugliese, non è garantita la continuità produttiva neanche per Genova. Perché a Cornigliano, così come a Novi Ligure, si lavora sulle bobine di acciaio che arrivano da Taranto. E se mancano quelle, l’ingranaggio si ferma. Per questo, stamattina circa un migliaio di lavoratori della fabbrica di Cornigliano sono scesi in piazza a Genova per chiedere cosa ne sarà di loro se con i sigilli a Taranto l’uso dell’area a caldo si bloccherà.

Solo lo stabilimento pugliese, infatti, è in grado di produrre acciaio a partire dalla materia prima, composta da ferro e carbonio, grazie agli impianti a caldo che a Genova sono stati invece dismessi nel 2005. Senza i coils – si chiamano così i rotoli d’acciaio che arrivano in Liguria via nave per poi essere lavorati – lo stabilimento è fermo. A Taranto sono state sequestrate sei aree: i parchi minerali, la cokeria, gli altiforni, le acciaierie, l’agglomerazione e il deposito di materiale ferroso. Si tratta delle aree più inquinanti, ma anche quelle che stanno a monte del ciclo produttivo dell’acciaio. Per questo il sequestro di ieri potrebbe significare uno stop completo dell’intera catena, che da Taranto arriva a Genova.

Ogni settimana nel porto ligure arrivano tre navi cariche dei tubi d’acciaio, che vengono sbarcati direttamente sulle banchine dell’Ilva. Al massimo due giorni dopo l’arrivo degli ultimi rotoli da Taranto, ha confermato questa mattina la direzione di fabbrica, lo stabilimento sarebbe costretto a chiudere i battenti. E non ci sarebbe più lavoro per 1.760 operai, 954 dei quali hanno sottoscritto un contratto di solidarietà dopo un lungo periodo di cassa integrazione. 

Mentre si attendevano notizie da Taranto, ieri la rappresentanza sindacale unitaria della fabbrica ha convocato una assemblea per le 8,30 di questa mattina. La decisione dei lavoratori, circa un migliaio quelli che lavorano effettivamente, è stata di scendere in piazza nel centro della città fino ad arrivare in Prefettura, in via Roma. «Ci attiveremo col Governo per avere risposte», ha detto il prefetto ai lavoratori.

I lavoratori di Cornigliano sono oggi 1760. Erano un migliaio in più nel 2005, quando fu firmato l’accordo sulla riconversione dell’area a caldo. Anche qui, come a Taranto, tutto era partito dopo il sequestro della cokeria da parte della magistratura. In questo caso, sotto la lente di ingrandimento c’era un unico altoforno. Così in pochi mesi si era arrivati a un’intesa tra i ministeri delle Attività produttive e dell’Ambiente, sindacati, imprenditori e istituzioni locali sulla riconversione dello stabilimento in un polo del freddo altamente tecnologico.

Con la crisi economica e soprattutto quella della domanda dell’acciaio, però, i tempi si sono allungati. Il gruppo Riva ha investito comunque a Cornigliano oltre 700 milioni di euro e i nuovi impianti sono ormai pronti: il decatreno, la zincatura tre, il centro servizi e adesso anche la zincatura quattro, che è appena stata completata e in queste settimane è in fase di prova. Ma a questo punto, il nuovo macchinario potrebbe rimanere intonso se da Taranto dovesse arrivare conferma dello stop.

Come spiega Il Secolo XIX, tecnicamente l’impianto di Taranto non si fermerà immediatamente. Servono almeno una ventina di giorni per fermare l’altoforno in sicurezza, durante i quali l’impianto continua a produrre ghisa che, lavorata con il coke, diventa acciaio. Il problema è che il sequestro di ieri riguarda anche gli impianti a valle dell’altoforno: la ghisa, quindi, non può essere trasformata in acciaio. Il risultato è che l’altoforno continuerà a funzionare per qualche settimana, ma la produzione dell’acciaio si fermerà da subito. 

Intanto i ministeri dell’Ambiente, dello Sviluppo economico e della Coesione territoriale hanno sottoscritto ieri un protocollo d’intesa “per interventi urgenti di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto” con la Regione Puglia, la provincia e il comune di Taranto. L’importo previsto per gli «interventi di riqualificazione ambientale» è di «336 milioni di euro»: 329 pubblici e 7,2 privati. Di questi, 119 milioni vanno alle bonifiche, 187 milioni per interventi portuali e 30 milioni per il rilancio industriale.

Quello che ora tutti spettano è la decisione del tribunale del riesame sul provvedimento di sequestro della fabbrica di Taranto. Decisione che è prevista entro le prossime 96 ore. Per conoscere il destino di Taranto, ma anche di Genova e Novi Ligure, quindi, bisognerà ancora aspettare quattro giorni. Il giudizio del Gip, però, sembra non lasciare vie d’uscita: «Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». La domanda è: lasciare acceso il forno con tutti i rischi che potrebbe comportare o mettere in pericolo decina di migliaia di posti di lavoro?

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