“Super Duper”: i cappelli di tre ragazzi diventano un brand globale

"Super Duper": i cappelli di tre ragazzi diventano un brand globale

Basta avere un’idea in testa per creare una start up di successo? Per i tre ragazzi creatori del marchio di cappelli “Super Duper” la risposta non può che essere sì. Un progetto nato un po’ per gioco, un po’ per passione, dopo aver comprato in un mercatino dell’antiquariato delle vecchie forme di legno. Non forme qualunque, ma quelle fatte per “tirare” il feltro dei cappelli. Come si faceva una volta. Era il 2010. Da quel momento le sorelle Veronica e Ilaria Cornacchini, insieme a Matteo Gioli, hanno deciso di «voler imparare a fare i cappelli». Da artigiani, però, con le proprie mani. E ci sono riusciti.

«Nessuno di noi aveva mai fatto prima dei lavori manuali», racconta Veronica, «però abbiamo sempre avuto una grande passione per i cappelli». Tutti e tre hanno studiato design, ma le esperienze dalle quali provengono sono molto lontane: Veronica, 28 anni, è una ballerina di danza contemporanea, Ilaria, 30, è iscritta alla facoltà di architettura dell’Università di Firenze e Matteo, 28, suona la chitarra in una band rockabilly. Di quelle che si ispirano agli anni Cinquanta. Un po’ modaioli, un po’ vintage, e quel tanto alternativi nello stile per essere originali, i tre cappellai hanno unito le forze e si sono messi all’opera. 

«Abbiamo cominciato a cercare gli artigiani che potessero insegnarci a fare questo lavoro», continua Veronica. «Aperto l’elenco telefonico, ci siamo messi alla ricerca del numero della modista Anna Maria Niccolini, che abita a Firenze. Siamo piombati a casa sua e lei ci ha indicato gli artigiani ai quali rivolgerci». Perché, precisa, «non ci sono scuole che ti insegnano a fare i cappelli». Bisognava imparare dalle persone giuste, insomma. Un apprendistato durato qualche mese nelle botteghe. Che ha insegnato a Veronica, Ilaria e Matteo a “tirare” il feltro su quelle forme di legno – «fatte a mano anche loro», precisano – da cui l’idea di “Super Duper” era nata. 

«È stato un lungo percorso di apprendimento», ricorda Veronica, «finché i cappelli fatti con le nostre mani sono aumentati e abbiamo voluto provare a vedere quale fosse la reazione della gente per i nostri prodotti». La prima tappa per esporre i copricapi delle forme più disparate sono state le fiere di settore. Fino a una vetrina importante come Pitti, a Firenze, dove i tre ragazzi presentano la collezione invernale del 2011-2012. La reazione dei compratori, soprattutto stranieri, è più che positiva. Da qui comincia l’avventura imprenditoriale. «Quella era la nostra prima vera collezione», dice Veronica, «ora siamo già arrivati alla quinta». 

Ma come si crea un cappello? «L’idea», spiega Veronica, «nasce dalla ricerca di immagini che va anche indietro nel tempo. A volte a ispirarci può essere un particolare materiale o anche una canzone». Così come è stata una canzone, “Puttin’ on the Ritz” di Irving Berlin, a dare il nome al trio. “Puttin’ on the ritz”, da cui poi è stato tratto anche un musical reso celebre da Fred Astaire, è un’espressione gergale che indica un modo di vestire con stile ed eleganza, ispirata al famoso Ritz Hotel a cinque stelle di Piccadilly Circus a Londra. E proprio in fondo al testo della canzone si trova l’espressione «Trying so hard to look like Gary Cooper…. SuperDuper!», «Provando con fatica a somigliare a Gary Cooper … Favoloso!». Ecco, dice Veronica, «favoloso, eccezionale: la stessa sensazione che spero si provi davanti ai nostri cappelli». 

Le forme da cui si traggono i modelli dei cappelli
 

Creare un cappello, però, è tutt’altro che facile. Il lavoro è lungo ed è fatto di tante attese e molta pazienza. «Il feltro o la paglia devono essere “tirati” sulle forme di legno, costruite seguendo le linee anatomiche della testa, e poi gli viene fatta prendere la forma con il vapore», spiega Veronica tra le appenderie. Ogni cappello richiede lavorazioni e tempi diversi. Ma ogni cosa deve essere fatta con cura. «Bisogna aspettare che il materiale vaporizzato si asciughi, per poi aggiungere fiocchi e nastri». Tutti, è inutile dirlo, cuciti a mano con ago e filo. Al bando qualsiasi cucitrice automatica. «E i punti fatti a mano si possono vedere dall’interno».

In tanti, soprattutto all’estero, pare si siano innamorati delle creazioni di Veronica, Ilaria e Matteo. «Vendiamo l’80% dei nostri prodotti fuori dall’Italia», racconta Veronica, «in particolare in Giappone. All’estero c’è un’attenzione maggiore verso il made in Italy, verso ciò che è fatto a mano con cura ed è innovativo. Nel nostro Paese, invece, si bada molto al grande nome, al brand e non alla qualità e alla storia che c’è dietro un prodotto». 

Forme non convenzionali, linee originali e materiali di qualità. Nel laboratorio di via Senese, a pochi chilometri dal centro storico di Firenze, i tre ragazzi progettano, disegnano e creano i loro cappelli con l’aiuto di un gruppo di artigiani. Alle donne, l’ultima parola sulle collezioni femminili. A Matteo, su quelle maschili. E la conduzione dell’azienda è tutta familiare, alla vecchia maniera. Oltre alle due sorelle, infatti, nel trio c’è anche un’altra coppia. «Gestiamo tutto da soli», dice Veronica, «e anche se ci siamo divisi i compiti sulle collezioni, alla fine tutti ci rimbocchiamo le maniche per fare tutto». 

I prezzi dei cappelli non sono proprio alla portata di tutti. Si va dai 150 ai 300 euro, per la superior quality e le edizioni speciali. «Come il cappello con gli occhiali incorporati che si appoggiano sul naso», dice Veronica.

Ogni collezione è composta da qualche centinaio di copricapo, che i “Super Duper” espongono nelle fiere di settore. Qui vengono venduti i modelli. E una volta conclusa la campagna vendite, comincia la produzione. Pile di cappelli da spedire in settanta negozi diversi in tutto il mondo, di cui due in Germania, tre in Inghilterra e quindici in Giappone. Così le creazioni di via Senese sono finite sulle passerelle delle sfilate di Milano e sulle pagine di giornali di moda come Vogue e Marie Claire

Certo, raccontano, all’inizio non è stato semplice. «C’è stato un investimento iniziale che ha comportato un sacrificio», racconta Veronica, «e che è stato ammortizzato quando sono cominciate le prime vendite. E ora possiamo dire di aver recuperato e di essere in positivo. La qualità alla fine vince». 

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