Tra Armani e Ikea, in Brianza si salva solo chi apre all’estero

Tra Armani e Ikea, in Brianza si salva solo chi apre all’estero

«Prima, le botteghe, le piccole imprese erano tantissime. Adesso quel comparto, si può dire, che si è un po’ ridimensionato». Lorenzo Porro, industriale del legno di Cantù di terza generazione, sposta il braccio nell’aria, e unendo il pollice e l’indice spegne candeline immaginarie. Una dopo l’altra, molte botteghe del mobile hanno dovuto chiudere. Troppo alti i costi, troppo forte la concorrenza: non hanno retto all’ondata della crisi che, se non ha travolto tutto, senz’altro ha martellato in modo pesante. Anche su di lui: «Io resisto e continuo, ma a me ha spazzato via il 20% del mercato nazionale». Un quinto che si è volatilizzato, «e che non tornerà più, lo sappiamo. Non ci possiamo illudere che, quando la crisi passa, quei clienti ritorneranno. Le cose sono cambiate, dobbiamo adeguarci e cambiare anche noi».

Lui si è aperto all’estero, per quello che può: «Non c’è altra soluzione: sono quelli i mercati dove si può ancora fare qualcosa», mentre all’idea di lasciare l’Italia scuote la testa e sorride: «E dove la trovo un’altra Brianza? Competenze, capacità, tradizione, abilità, sono solo qui. Gli artigiani migliori sono qui. Le idee, quelle più belle, nascono qui. Vado via? Ci perdo tutto». È l’anima del distretto, bellezza, anche se la parola lo fa sorridere. Lui la trova soltanto una «invenzione per gli economisti».

Eppure il distretto, volendo chiamarlo così, ha una sua identità, una sua tradizione. È ampio, va dalla Brianza monzese fino a quella comasca e lecchese, è a Desio, a Cantù, a Seregno. Accarezza i confini di Besana, ma non li supera. Si appropria di Arcore, e scivola fino a fermarsi a Nova Milanese. Non si sovrappone agli altri, come quello della tessitura, o quello della meccanica; ma negli incroci di strade e superstrade, diventa uno dei punti più produttivi d’Europa, e di conseguenza del mondo.

Il distretto del mobile brianzolo

Un luogo dove sono fiorite aziende, botteghe, industrie. Uno sviluppo durato oltre un secolo. Un mondo che, adesso, comincia a faticare: secondo i dati della Camera di Commercio di Milano, il fatturato totale del mobile brianzolo sarebbe intorno ai 2,52 miliardi di euro, cioè il 42% del mobile in Lombardia. Ma dietro a questa cifra gloriosa, c’è la lenta agonia delle botteghe: in tutta la filiera, dal 2010 al 2011, almeno un migliaio sono scomparse. Chiuse, delocalizzate, o fallite. C’è preoccupazione, anche perché molte imprese scompaiono con la morte del fondatore, interrompendo una linea di continuità nella produzione che era stata la cifra di tutto quel mondo, la sua radice.

La storia del distretto è nota: «Comincia con le ville dei signori milanesi», spiega Mario Marelli, economista, che ha speso una vita nello studio del distretto del mobile canturino. Quelle ville antiche di villeggiatura, snobbate da Stendhal che preferì rimanere sedotto da una Brianza ancora campagnola, dai suoi paesaggi, i boschi e, va aggiunto, le avventure galanti più o meno a pagamento, erano anche meta di arredatori milanesi di grido. «Per fornire i mobili richiesti, però, hanno cominciato a utilizzare la manodopera del luogo», cioè i contadini brianzoli. Braccia rubate all’agricoltura, ma che capiscono che l’artigianato del mobile rende di più. Da qui nascono le botteghe, le scuole, i mobilifici sempre più sviluppati. Ma il boom arriva dopo, con il dopoguerra. Prima, in Brianza «c’era povertà, eccome», spiega Porro. «Mia nonna mi raccontava ancora come, la domenica, si presentava in ginocchio, dalla signora del paese, che usciva dalla sua villa e distribuiva caramelle. Questa è la Brianza romantica, che decantano. Quella dove si faceva la fame».

Una storia di tenacia, di riscatto e di lavoro l’ha trasformata in uno dei centri più produttivi del mondo. Certo, al prezzo della distruzione del territorio, sempre più coperto di fabbriche e mobilifici, e di un’urbanizzazione senza fine. Tra Meda e Seregno il confine è di 40 passi. «Con il dopoguerra, è il periodo delle esposizioni permanenti, che dominano lungo la Valassina e anche la Comasina. Mobilifici e vetrine che si susseguono lungo tutta la strada: così i mobilieri mostravano i loro prodotti, e i clienti li compravano», racconta Marelli. Una strada che si inoltra negli anni ’70, finché non nasce l’idea di vendere nei negozi al dettaglio in città. Nuova clientela, nuovi bisogni.

Questo porta alla fine delle esposizioni, che pian piano muoiono. A Cantù ne resta una, l’Esposizione Permanente in piazza Garibaldi, (una piazza che lo scrittore Luca Goldoni, dopo una visita nel paese, aveva definito una delle più brutte d’Italia). L’Esposizione resiste, anche se, come spiegano, non si sostiene da sola. Il grosso dei guadagni arriva dall’arredamento per la nautica. I pochi ordini dei mobili esposti sono per clienti stranieri, che si accaparrano credenze in finto rococò e li portano in Arabia, o in Russia.

Piazza Garibaldi, Cantù

L’esposizione permanente in piazza Garibaldi
L’interno dell’esposizione permanente

Nel frattempo si sono imposti i grandi marchi del mobile, come Molteni da Giussano, o B&B, o Cappellini e Cassina, ora acquistato da Montezemolo. Aziende storiche oramai diventati brand internazionali.

«La concorrenza straniera non è mai stata un problema», racconta Marelli, «fino al 1989». Non furono i cinesi, ma gli svedesi. A Cinisello, proprio alle porte della Brianza, apre il primo centro Ikea. Una provocazione. Da quel momento si erode tutto il mercato del ceto basso e del ceto medio impiegatizio. «Quella che una volta chiamavano piccola borghesia cambia abitudini» e preferisce il mobile Ikea, modulare e standard. La reazione, però, c’è. «Il lusso: si punta all’alta qualità, e alle fasce ricche della popolazione. La svolta riesce sia alla piccola-media impresa che alla bottega dell’artigiano», ognuno con il proprio bacino di clientela, ognuno attingendo ai propri canali di vendita, ma con tutti i limiti del caso. «Qui si capisce che il bisogno maggiore è quello dell’internazionalizzazione. Bisogna uscire dall’Italia, aprirsi a nuovi mercati». Solo che lo possono fare in pochi, quelli più grandi. Lo spiega anche una ricerca Sace del 2010, che individua nei nuovi mercati emergenti il polo cui puntare, che farebbe cresce il mobile di oltre un terzo del fatturato, trascinandolo fuori dalla crisi.

Il problema è che, se dal basso colpisce l’Ikea, anche dall’alto ci sono concorrenti forti. Armani, Fendi, Cavalli, i grandi stilisti hanno aperto anche linee di design di mobili. «Sono mobili, forse, di qualità inferiore rispetto ai nostri», spiega Porro, «ma hanno la forza della griffe famosa» che all’estero trovano mercato. Alla forza del marketing «noi opponiamo altri valori: la qualità, la resistenza, anche solo la bellezza del design». Sarà. C’è da dire che si possono creare anche alleanze, però. Come ha fatto proprio Molteni, unendo il suo Dada ad Armani ha creato una linea di sistemi per la cucina che sono arrivati ad arredare l’Imperial Cullinan, un enorme complesso residenziale di Hong Kong. In questo modo, ha cominciato la sua conquista dell’Oriente, fino ad aprire una filiale anche a Shanghai, due mesi fa. Per lui, l’export è il 70% del fatturato e “innovazione” la parole d’ordine. Belle parole, buone prospettive. Ma tra lui e le botteghe brianzole c’è il mare, o meglio, la maledizione del distretto. Un’entità economica-industriale concreta, ma non amministrativa.

«Ecco, i grandi ci riescono, ma i piccoli non possono salvarsi, alla lunga», spiega Marelli. «Devono associarsi, costruire reti di impresa e aiutarsi». Ad esempio: «partecipare alla fiera di Mosca, dove tutta la logistica e i trasporti comportano costi che superano i ricavi, e può anche capitare di non vendere nulla». Il problema è che «non possono pensarci loro. Sono attività che richiedono non solo iniziativa, ma anche tempo: e gli artigiani non ne hanno, devono badare all’oggi. Ai pagamenti, ai rifornitori, ai piccoli problemi di ogni giorno». Chiusi in una tirannia quotidiana, hanno bisogno di altri organismi che lavorino per loro. «Io ho pensato a come si potrebbe governare un distretto, ma questo della Brianza – ammette Marelli – non è un territorio facile». Qui «le persone sono interessate al particolare», hanno «un egoismo produttivo forte» e, nella sostanza, anche se «leali, laboriose e sobrie», vivono «ognuno per sé. Che così, sanno, si fa per tre».

L’interno della Porro Industria Mobili Spa

Si riconosce in controluce quella tenacia che li ha portati fuori dalla povertà contadina, che ha trasformato la piccola bottega in fabbrica. Ma di più non vanno. «Sono tutte imprese piccoline, non si fa massa critica», spiega Porro, alzando le spalle. «Prevale sempre la mentalità dell’impresa familiare. Associazioni, accorpamenti, è difficile farli. E non sono solo i capi a non volerle: spesso è anche lo staff. Unirsi ad altri implica rimettere in discussione la propria posizione, magari anche trovarsi in ruoli subordinati. Chi lo accetterebbe volentieri?». Nessuno, conclude. Ma la soluzione sembra solo quella. A ogni ondata della crisi, alcuni pezzi vengono portati via e, come spiegava Porro, unendo il pollice e l’indice, si spengono piano, soffocate come candele.