Un atelier di moda interrazziale. Prodotti made in Castel Volturno

Un atelier di moda interrazziale. Prodotti made in Castel Volturno

Si chiama “Casa di Alice”, da Alice nel paese delle meraviglie, perché è il simbolo di un mondo fantastico ma non impossibile, un mondo di fiaba in cui le persone vivono del proprio lavoro e sono perfettamente integrate nella società, anche se straniere e con un colore di pelle diverso. È un villino di quattro vani più accessori confiscato a Pupetta Maresca e, dal 2010, concesso dal Comune all’Associazione Jerry Essan Masslo per realizzarvi, insieme alla cooperativa sociale “Altri Orizzonti”, un centro per donne vittime di sfruttamento e violenza e un osservatorio sul disagio sociale. Si trova in viale Correggio, a Baia Verde, in mezzo al nulla, a Castel Volturno, città del casertano nota ai più per la strage di San Gennaro in cui, il 18 settembre 2008, in un agguato di camorra attuato da un gruppo scissionista del Clan dei Casalesi, persero la vita sei immigrati africani, tutti giovanissimi. Nessuno di loro era coinvolto in attività criminali: furono uccisi in una sartoria di Varcaturo.

E Casa di Alice ospita proprio una sartoria sociale, che si inaugura oggi con una sfilata di vestiti e cappelli variopinti, con stampe di fiori ed animali, confezionati con tessuti africani dai colori del sud del mondo e in foggia occidentale e che rappresentano il riscatto di donne con vite difficili alle spalle ma con la voglia di avere un ruolo concreto e stabile in una società diversa da quella di appartenenza.

È una scommessa di grande valore simbolico quella di Renato Natale, presidente dell’Associazione Jerry Masslo ed ex sindaco di Castel Volturno, e di Anna Cecere, ex sarta che si è prestata ad insegnare, da volontaria, alle due lavoratrici della sartoria il mestiere. A “Casa di Alice” lavorano una giovane ghanese e una nigeriana, donne con brutte storie alle spalle, di grande disagio e violenza. A garantire la qualità della vita di queste donne e la loro dignità c’è adesso un marchio, “Made in Castelvolturno”, l’etichetta che viene cucita su tutti i capi prodotti nella sartoria. Un marchio che vuole garantire il rispetto dei diritti umani, l’integrazione e un progetto di economia locale che punti ad invertire le logiche tipiche del lavoro in terra di camorra: non più favore violento dei “caporali”, ma diritto inalienabile delle persone.

“L’idea è nata un anno e mezzo fa da alcune ragazze che venivano assistite dalla nostra associazione e che avevano un po’ di esperienza come sarte – spiega Renato Natale, presidente dell’Associazione Larry Masslo – Pubblicammo un avviso sulla nostra pagina Facebook per reperire le attrezzature necessarie all’avvio dell’attività e subito ci furono regalate quattro macchine per cucire da imprenditori amici che le avevano dismesse. Le portammo nel bene confiscato a Pupetta Maresca e iniziammo l’attività”.

È nata così “Casa di Alice”. I tessuti utilizzati per confezionare gli abiti provengono dal Burkina Faso e dalla Tanzania e presentano le colorazioni accese tipiche africane. I vestiti e gli accessori sono stati disegnati da Anna Cecere, che ha deciso di mettere a disposizione delle lavoratrici le sue abilità di ex sarta. “La speranza è di riscattare non solo le donne, ma anche il territorio, conosciuto solo per i suoi aspetti negativi – afferma Natale – vogliamo rivalutare una realtà che ha diverse bellezze naturali, anche se terribilmente deturpate dall’uomo, e vogliamo soprattutto raccontare la bellezza della multiculturalità. Il nostro è un territorio altamente problematico, dove i rappresentanti politici hanno fatto per anni campagna elettorale basata sull’espulsione degli immigrati e sull’extraterritorialità. Ecco perché la nostra scommessa assume una valenza ancora più importante. Lottiamo ogni giorno per vincerla”.

Come ha accolto Castel Volturno l’attività della sartoria? “Inizialmente con grande difficoltà e chiusura, – continua il presidente dell’Associazione – ma adesso, finalmente, c’è una certa apertura nei nostri confronti. Ieri, per esempio, il nostro fornitore di sedie si è intrattenuto con noi e ha manifestato il suo apprezzamento all’idea. Sembra si vada diffondendo un certo consenso”.

“Le stoffe sono tutte di provenienza africana, e già da sole sono meravigliose. Noi abbiamo cercato solo di alleggerire l’eccentricità dello stile etnico per dar vita ad abiti e accessori di foggia occidentale, più vicini al nostro gusto – spiega Anna Cecere –. Non produciamo solo vestiti, ma anche borse, cappelli e cuscini, a cui applichiamo il marchio ‘Made in Castelvolturno’”.

Un marchio attraverso sui si intende dimostrare che l’Africa non è un problema, ma una risorsa. “Castel Volturno, insieme con Lampedusa, è il simbolo dell’immigrazione, una città con innumerevoli problemi logistici e socio-politici – continua la Cecere –. Ci interessa soprattutto far capire alla gente che lo straniero è una persona come e quanto gli abitanti del posto e, soprattutto, che può costituire una risorsa per la città”.

L’eterogeneità come punto di forza, dunque, come spinta per ricomporre un paese intero e farlo diventare un modello di integrazione e di rispetto dell’uomo e delle sue diversità, un laboratorio creativo dove costruire integrazione tra i popoli, pari diritti e dignità al di là delle differenze di etnia o di sesso. Made in Castelvolturno è un marchio che rappresenta il lavoro di uomini e donne che “vestono la libertà”.

Castel Voltuno non è solo l’eccidio di San Gennaro e non deve essere ricordata solo per quello, anzi, dal ricordo della strage si deve ripartire con la speranza di costruire una società diversa. L’Associazione Larry Masslo, d’altra parte, sta lavorando al progetto della “Galleria della memoria”, intitolata a Joseph Ayimbora, il cittadino ghanese che al tempo della strage abitava a Castelvolturno già da otto anni e che sopravvisse fingendosi morto nonostante i numerosi colpi ricevuti alle gambe e all’addome: riuscì a guardare in faccia chi l’aveva colpito e la sua testimonianza fu decisiva per riconoscere gli autori della strage. Morì tre anni dopo per cause naturali.

“Dedichiamo il nostro lavoro a tutti i ghanesi uccisi quel terribile giorno – afferma Anna Cecere – non vogliamo che vengano dimenticati. Erano persone innocenti che stavano qui solo per lavorare e che sono morte per colpa della camorra, non per implicazioni proprie. Non tutti gli immigrati sono collusi con le attività camorristiche, la maggior parte vuole solo fuggire agli orrori dei paesi di origine e lavorare in mezzo a noi. È questo che vogliamo dimostrare con la nostra sartoria”.

Non solo una sfilata, per l’inaugurazione di Casa di Alice, ma anche un concerto di musica africana e una degustazione di cibi etnici, il tutto preceduto dalla presentazione del libro “Confessioni di un killer” della giornalista del Mattino Daniela De Crescenzo. L’evento rientra nell’ambito del Festival dell’Impegno Civile. Le terre di don Peppe Diana, rassegna itinerante sui beni confiscati alla camorra. Gli abiti e gli accessori prodotti in sartoria sono disponibili su www.madeincastelvolturno.com

X