Dopo quello che è successo a Lance Armstrong, è legittimo guardare con sospetto ogni sfilza di successi. Ma dietro alla storia dell’aeroporto di Incheon, in Corea del Sud, che dal 2005 è votato migliore al mondo da Airports Council International, non c’è nessun doping, neanche quello delle distorsioni alla concorrenza cui molti – in particolare le compagnie europee – attribuiscono spesso i successi degli altri, in Asia e nel Golfo.
Incheon ha vent’anni. Per essere più precisi, fu nel novembre 1992 che cominciarono i lavori di bonifica di 4.743 ettari di terra tra le isole di Yeongjong e Youngyu nel Mar Giallo, a 70 chilometri da Seoul e una trentina dalla città portuale di Incheon. La scelta fu controversa: alcuni temevano che il terreno non fosse abbastanza solido per un aeroporto, altri che potessero soffrire gli uccelli che abitavano le paludi, altri infine che la zona fosse troppo prossimo al confine con la Corea del Nord. Qualche cambiamento venne introdotto in corso d’opera, ma la filosofia di base non mutò – fare della Corea l’hub dell’Asia del Nordest, la regione più dinamica del mondo.
La costruzione dell’aeroporto, per cui al picco erano impiegati 13 mila operai, terminò il 31 dicembre 2000, per la modica somma di 13.816 trilioni di won, poco più di cinque miliardi di euro al cambio di allora. Quando Incheon aprì al traffico il 29 marzo 2001, tutte le rotte internazionali che fino allora operavano dall’aeroporto di Gimpo – molto più vicino al centro, ma ormai saturato – furono immediatamente soppresse. Meglio non correre il rischio che qualche manager poco patriottico preferisse la comodità dello scalo sotto casa per andare all’estero passando da Tokyo o Hong Kong, al posto di recarsi a Incheon per volare con la Korean Air o Asiana.
Incheon è dotato di tutte le strutture che caratterizzano una aereotropolis (almeno a Nord delle Alpi e a Sud del Mar Ionio), tra cui ovviamente una molteplicità di alternative per raggiungere la capitale. Già c’è un treno veloce per la stazione centrale, una metropolitana che permette il trasferimento a varie linee e dozzine di linee di bus per le diverse zone di Seoul, una metropoli immensa. Ed è in progettazione una linea di alta velocità per connettere Incheon direttamente con il resto del Paese. Senza dimenticare che Incheon è l’unico scalo al mondo dotato di una boutique Louis Vuitton – del resto Seoul è ormai ritenuta la città faro per le nuove tendenze in Asia. Ad aumentare ulteriormente le ricadute economiche dell’aeroporto concorrerà anche il Yeongjong Medical Centre, che prevede di accogliere molti dei 30 mila stranieri che già vengono in Corea per curarsi. È un progetto targato Hanjin Corporation, la holding che controlla Korean Air.
In più, non avendo apparentemente sentito parlato né di tagli lineari né della possibilità che un Paese con un’economia più o meno simile a quella italiana abbia tre scali internazionali, 13 aeroporti strategici e 8 aeroporti primari, i coreani hanno già destinato quasi 3 miliardi di euro alla fase 3 per costruire un nuovo terminal entro il 2017 e aumentare la capacità di traffico annua a 62 milioni di passeggeri e 5,8 milioni di tonnellate di merci. Nel frattempo hanno già ben chiaro il profilo della fase 4: due terminal, quattro satelliti, 128 porte d’imbarco, 100 milioni di passeggeri e 7 milioni di tonnellate di merci.
La storia di Incheon è anche illuminante per definire cosa è un’economia mista all’epoca della globalizzazione. Il progetto è di uno studio americano (Fentress Bradburn Architects di Denver) e la costruzione si deve a Samsung Engineering & Construction, con gli inglesi di Parsons come construction and project manager e Yooshin Engineering Corporation nel ruolo di consultant engineer. Anche se le imprese coreane hanno fatto la parte del leone nelle forniture (per esempio POSCO per l’acciaio), i francesi di Thales ATM disegnarono e installarono il sistema di controllo del traffico aereo, la Otis fornì gli ascensori e un consorzio tedesco si occupò della messa a punto dei sistemi prima dell’apertura.
La Incheon International Airport Corporation (IIAC) è pubblica, come la Korea Airports Corporation, che gestisce gli altri aeroporti. I profitti (calmierati al 10% del fatturato, come in tutte le imprese pubbliche coreane) si ripetono anno dopo anno. Nel 2008 il Presidente Lee Myung Bak aveva annunciato l’intenzione di vendere 49% della IIAC a un operatore straniero per assicurarne la competitività internazionale, ma ha finito col rinunciare, di fronte all’opposizione della società civile e delle autorità locali. Anche perché la IIAC all’estero c’è andata, con progetti a Erbil in Kurdistan, Cebu nelle Filippine, Khabarovsk in Russia e varie località in Cina e nella regione del Mekong. L’anno prossimo intende iniziare progetti BOT (built, operate and transfer), nel 2014 comprare scali all’estero e nel 2015 creare una filiale per l’internazionalizzazione. Poche idee ma chiare!
In compenso la Incheon Airport Expressway è operata da un consorzio (New Airport Hiway Co Ltd) per un periodo di 30 anni. Il ponte a pedaggio di Incheon, il più lungo della Corea (18,4km per connettere l’isola di Yeongjong e la Songdo New Town, dove chi scrive ha la “fortuna” di lavorare quotidianamente…), è il frutto di una Public-Private Partnership con una società straniera, la canadese AMEC. I privati hanno finanziato la costruzione di circa 2/3 del progetto, il governo il resto.
I coreani sono molto fieri del proprio aeroporto e dei 6.300 visitatori che la IIAC ha accolto dal 2001 per mostrare come gestire con profitto un progetto tanto complesso. Difficile pensare che tra costoro non ci siano stati anche i vertici del sistema aeroportuale italiano anche se potrebbero avere avuto difficoltà a trovare un biglietto aereo: l’Alitalia a Incheon non vola, lo fa la Korean Air tre volte alla settimana su Fiumicino, mentre le frequenze settimanali sono 24 su Parigi, 21 su Francoforte, 10 su Amsterdam…