Mi ero informata, prima di partire, ma vivere la questiona tibetana sulla propria pelle è un’altra cosa.
Oggi, 20 agosto 2012, la capitale del Tibet – Lhasa – è una città sotto assedio. Polizia dappertutto, controlli continui ai turisti come ai residenti, uomini armati ad ogni angolo della città vecchia (i quartieri del Barkhor e di Jokhang) e in periferia, lungo i vialoni moderni inneggianti a Mao e al socialismo “giallo”. Per non parlare dei monasteri: da Samye a Tashilumpo, da Ganden a Shigatse a Sakya, i controlli sono pervasivi, ingombranti, fastidiosi. I cinesi sono dappertutto: controllano i monaci e le foto dei turisti (applicando ai visitatori una tassa che va dai 20 ai 100 yuan – dai 2 ai 10 euro circa – per immortalare sulla pellicola le singole stanze dei monasteri), i visti, i permessi, i libri, e stanno cancellando sistematicamente la cultura tibetana, invitando i giovani ad andare a studiare in Cina e ad adottare lo stile di vita comunista.
La nostra guida ci racconta il caso di sua figlia, uno dei tanti esempi del tentativo cinese di annientare l’identità del popolo tibetano: la giovane è stata mandata, anche se a malincuore, a studiare in Cina, dove le vengono insegnate la lingua e la storia locale senza alcun accenno alla cultura tibetana. Per evitare che la sua identità venga completamente cancellata, suo padre intrattiene con lei un fitto carteggio in tibetano per invogliarla a praticare la sua lingua di origine e la sottopone, via posta cartacea, a degli esercizi linguistici per farle fare pratica. Non può mandarle email perché tutti i server di posta elettronica sono controllati dal governo cinese, così come i motori di ricerca e i siti di video sharing come YouTube. L’occhio della Cina è dappertutto. Bisogna stare attenti. E non sono solo le guide ad essere soggette ai controlli: anche i turisti sono sotto il mirino dei cinesi.
Vi basti pensare che, appena arrivati all’aereoporto di Lhasa, tre di noi (tra cui la sottoscritta) in possesso dell’ultima versione della Lonely Planet Tibet, sono stati privati del volume, ritenuto sconveniente per i suoi accenni alla questione tibetana e all’esilio del quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso (dal 1959 residente in India, a Dharamsala) e per tanto messo all’indice dal governo cinese.
Restiamo interdetti e per una buona mezz’ora continuiamo a questionare con i cinesi: abbiamo comprato la guida per visitare il Tibet e senza di essa non saremo in grado di comprendere alcuni importanti aspetti culturali del paese; inoltre – ricordiamo alle guardie in divisa – l’ambasciata cinese in Italia non ci ha informati che il libro fosse stato bandito. Il ché ci rende vittime della situazione. Ma ogni tentativo è vano: dopo mezz’ora di discussione, otteniamo in cambio solo sguardi ostili e atteggiamenti irremovibili. Le tre Lonely Planet ci vengono sequestrate e per lo più associate al nostro numero di passaporto in modo da identificarci come soggetti a rischio nel caso di un futuro viaggio in Tibet. Non riusciamo ad ottenere neanche che ci vengano rispedite in Italia, al nostro rientro: le bruceranno, senza lasciarne traccia. È questo il diktat del governo cinese. Siamo a dir poco allibiti, ma per fortuna tre di noi sono riusciti a passare il controllo e le loro guide sono sane e salve, in valigia.
Potrei raccontare altri aneddoti simili, ma preferisco segnalare qui di seguito alcuni siti dedicati alla questione tibetana, per chi fosse interessato ad approfondire questo argomento a dir poco sottovalutato in Italia come in tutto il resto dell’Occidente.
http://www.italiatibet.org/
http://tibet.net/
http://www.tibet.org/
http://www.tchrd.org/
http://www.tibetjustice.org/reports/
E infine, ecco una domanda che mi sono posta durante questo difficile, straordinario viaggio, a cui io stessa non ho trovato risposta. E non si tratta, per dirla in modo socratico, di fare maieutica fine a se stessa quanto di sollevare la questione e cercare di capire dal confronto collettivo quale possa essere l’epilogo per questo popolo sorridente e pacifico, che sembra – purtroppo – destinato a una dignitosa quanto inevitabile fine. Cosa ne sarà del Tibet, alla morte del quattordicesimo Dalai Lama?
Come alcuni forse sanno, l’attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso, ha rinunciato ai suoi poteri politici limitandosi esclusivamente a quelli religiosi ed ha già dichiarato che il suo successore, il quindicesimo Dalai Lama, non si reincarnerà nel Tibet occupato dai Cinesi, e forse rinuncerà per sempre alla sua carica, ponendo fine alla teocrazia lamaista tibetana.
Malgrado la figura del Dalai Lama sia secolare e rappresenti un caposaldo per tutta la cultura tibetana, la Cina ha deciso infatti di arrogarsi il diritto di nominare in futuro le nuove reincarnazioni di questa importante carica religiosa, prerogativa che per tradizione spetterebbe ai soli lama tibetani. Il primo passo in tal senso da parte del governo di Pechino è stato compiuto nel 1995 quando i cinesi rapirono la supposta reincarnazione del decimo Panchen Lama, seconda autorità lamaista del Tibet, sottoposta a quella del Dalai Lama e ad essa legata da un antico vincolo nella ricerca delle reciproche reincarnazioni. Il potenziale undicesimo Panchen Lama fu quindi identificato da Tenzin Gyatso nella persona di Gedhun Choekyi, ma dal 1995 non si hanno più notizie di lui e della sua famiglia, che ufficialmente sono posti sotto la «tutela protettiva» del governo di Pechino. Nel settembre 2007, la Cina ha affermato che tutti gli alti monaci tibetani dovranno essere nominati dal suo governo e che, in futuro, questi dovranno eleggere il quindicesimo Dalai Lama sotto la supervisione del loro Panchen Lama, Jizun Losang Qamba Lhunzhub Qoigyijabu Baisangbu.
La situazione è tesa, il futuro appeso a un filo, ma ciò non impedisce al Dalai Lama di continuare a regalare al suo popolo e al resto del mondo frasi piene di ottimismo e di luce: «La mia speranza s’appoggia sul coraggio dei Tibetani, e sull’amore per la verità e la giustizia che è tuttora nei cuori della razza umana».
E noi speriamo che abbia ragione.