LONDRA – Legacy. Una parola per descrivere quello che resterà alla Gran Bretagna dopo che il fuoco olimpico verrà spento e lo stadio dei giochi verrà smontato: grazie alla sua struttura modulare, il teatro delle imprese di Bolt e Mo Farah potrà essere ridotto dalla capacità attuale di ottantamila persone a una più modesta di venticinquemila, e viceversa. Resterà anche questo, l’intelligenza messa nel pensare uno stadio olimpico che non fosse una cattedrale immobile.
A Mo, l’atleta inglese nato a Mogadishu, resteranno due titoli da campione olimpico, una campana per la posta dipinta d’oro che la Royal Mail gli ha piazzato davanti casa e il ritornello che i tifosi britannici intonavano ieri sera per chiedergli di scendere dagli studi della BBC nel parco olimpico e farsi abbracciare: una versione modificata di Hey, Jude dei Beatles che si conclude con un «Hey, Mo».
Resterà un esercito di volontari che il governo vuole coinvolgere nelle charities, in quella che noi chiameremmo “società civile”. L’invito, partito da David Cameron pochi giorni fa, è stato esteso non solo a chi ha partecipato all’organizzazione dell’Olimpiade ma anche a chi aveva fatto domanda e non è riuscito a esserci. Jessica Ennis resterà Jessica Ennis: bellissima e femminile anche vestita di fasce muscolari da eptatleta.
Resterà un’Olimpiade che è stata un grande sforzo e un grande investimento per la Gran Bretagna. Per informare i cittadini di cosa ne sarà dei soldi spesi per realizzare i Giochi, i governi di Sua Maestà di ogni colore mettono ogni anno nero su bianco una dichiarazione di intenti che pubblicano qui. Resteranno le biciclette con le ruote più tonde delle altre usate dagli atleti di casa. Resterà la capacità di Bradley Wiggins di far identificare una nazione nella propria pedalata e di farla appassionare al ciclismo, coltivando la speranza britannica di inviare nuovi talenti al National Cycling Centre di Manchester, la fucina dei successi olimpici sulle due ruote, una delle più possenti strutture a livello mondiale dedicate a questo sport.
Resterà l’immagine del sindaco di Londra, Boris Johnson, che scende dal cielo appeso ad un paracadute per atterrare a Victoria Park. Ad ascoltare i commentatori politici della BBC non ha speranze di arrivare al number 10 di Downing Street, poi basta infilarsi in un ristorante di Mayfair per capire, dai dialoghi dei professionisti che lo affollano, che l’establishment è già con lui. Alla Gran Bretagna resterà soprattutto se stessa. Le resteranno i suoi soldati che hanno risposto con efficienza e cortesia quando l’azienda che si era accaparrata il contratto per la sicurezza dei giochi ha ammesso di non poterlo onorare. Le resterà l’orgoglio per il terzo posto nel medagliere, per l’inno cantato ventotto volte, per l’union jack ovunque in un Paese dove ostentare la bandiera è preso come buffo nazionalismo.