Vent’anni fa l’altoforno di Bagnoli veniva spento, in un silenzio irreale riempito dagli occhi lucidi degli operai napoletani. Occhi lucidi perchè quella fabbrica era un po’ come la mamma. Occhi lucidi perchè il futuro si mostrava quanto mai incerto, nonostante le promesse di riconversione, di rioccupazione, di non lasciare a casa nessuno. Nonostante ciò, la disoccupazione si impossessò del quartiere, una zona di Napoli a forte vocazione turistica ma da sempre votata all’industria pesante: l’acciaieria Ilva, la Cementir e una fabbrica Eternit. Si sfiorò il 42%, e, come racconta Ermanno Rea nella sua La dismissione, la criminalità si affacciò nei vicoli abitati solo dalla classe operaia e con essa aumentarono, secondo uno studio citato nel romanzo, aggressività, patologie da stress, stati depressivi.
Se Taranto cerca un esempio nelle città dove l’ex Italsider ha fatto un passo indietro, deve guardare a Bagnoli, in primis, e a Genova, poi, dove alcuni reparti tra i più inquinanti hanno fermato le attività proprio in seguito a una decisione della magistratura. Era il 1992 quando Bagnoli divenne orfana della sua acciaieria, tra le proteste degli operai e gli scioperi organizzati. Non servì a nulla. India e Cina si spartirono altiforni e impianti ancora funzionanti e quello che è rimasto alla città è una scia di sostanze chimiche e tossiche nei terreni e nel mare, una serie di progetti rimasti sulla carta, centinaia di milioni di euro spesi e non ancora sufficienti e bracci di ferro tra istituzioni politiche locali che in venti anni hanno cambiato colore ma non la litigiosità.
Solo qualche giorno fa due ex operai disoccupati sono saliti su una delle gru ancora in piedi nell’ex area industriale per protestare: le ditte che a vario titolo stanno lavorando nella zona per l’eterno cantiere a cielo aperto che è Bagnoli, arrivano da fuori, con manodopera propria e disattendono quindi agli accordi di assumere gente del posto. I due, scesi dalla gru dopo un incontro con il vicesindaco Tommaso Sodano, sono la coda di quel movimento di disoccupati organizzati che non sono stati ricollocati: dopo anni di cassa integrazione e dopo gli scivoli per il prepensionamento, resta ancora un nugolo non ben definito dalle statistiche ufficiali di persone in cerca di lavoro. La maggior parte, negli anni immediatamente successivi alla chiusura dell’Ilva, dopo corsi di formazione, è riuscita a lavorare ai cantieri di bonifica, finchè ci sono stati i fondi. Adesso però la cantieristica ha bisogno soprattutto di manodopera specializzata nelle costruzioni e chi non ha potuto adattarsi arranca.
Come il gruppo di disoccupati che non più tardi di un paio di mesi fa si è tuffato in mare bloccando addirittura l’approdo dei traghetti. O come i cento che bloccarono i cantieri per giorni nel 2007 per chiedere di essere assunti dalle ditte che lasciavano a casa gli operai di Bagnoli, Cavalleggeri, Fuorigrotta, figli di quegli ex lavoratori dell’Ilva, spesso deceduti per malattie correlate proprio alle attività dell’acciaieria, o della vicina Eternit. Ambiente, lavoro, bonifica: anche posto che il tribunale del Riesame decida per Taranto di non far fermare gli impianti, anche posto che l’Ilva continui la sua storia produttiva a Taranto, che la bonifica proceda parallelamente a una rinnovata, e più compatibile produzione industriale, Bagnoli è l’esempio da non seguire.
Il futuro del quartiere flegreo passa attraverso la nuova asta di suoli pubblici: lo ha detto senza mezzi termini il sindaco Luigi De Magistris. Se nessuno dovesse farsi avanti, la società BagnoliFutura, nata per gestire la riconversione e la bonifica della zona, potrebbe fallire definitivamente, stritolata dai debiti con la banca Monte dei Paschi di Siena.
Da una situazione economica, nel 2008, di 15 milioni di euro si è passati a 500 mila euro nel 2010. Così per rimpinguare le casse ed erodere il debito con i creditori e i fornitori, è stato messo a punto il bando di gara per “l’alienazione dei lotti edificabili dell’Area tematica 2, del piano urbanistico esecutivo Coroglio-Bagnoli”. Quattro i lotti posti in vendita, ognuno dei quali ha una superficie di circa 16mila metri quadrati su cui è possibile realizzare nuovi edifici destinati per il 70% a residente e il restante 30% a terziario, imprese, commercio. Sono lotti il cui prezzo posto a base d’asta è di 21 milioni di euro nel caso del primo lotto e 14 per gli altri tre. Perchè questa volta l’asta dovrebbe andare a buon fine visto che è già andata deserta altre volte? I lotti sono più piccoli e sono state promesse agevolazioni burocratiche in fase di realizzazione d’opera. Ma nessuno grida alla speculazione edilizia in quanto questi soldi sono fondamentali per il futuro dell’area: i ricavi serviranno per erodere fino a estinguere il debito nei confronti della banca e far fronte anche a quelli con i fornitori.
E a maggio è stata anche aggiudicata la gara per la bonifica dei fondali. «La vecchia polemica se tocca prima ripulire i fondali o rimuovere la colmata è da superare – ha sottolineato il vicesindaco Tommaso Sodano – perchè riprendere la discussione avrebbe allungato i tempidella fruizione dell’area. La bonifica dei fondali avviene comunque con la messa in sicurezza per evitare che ci possa essere dispersione dei materiali verso il mare la cui qualità dell’acqua è buona». Insomma anche la bonifica dei fondali dopo vent’anni è ancora da avviare. Sulla questione pesano inchieste della magistratura partenopea e della commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti: l’ipotesi è che l’unica parte dei lavori realizzati, la messa in sicurezza del pontile per poter evitare che i terreni inquinati sconfinino in acqua, sia stata realizzata utilizzando terreni a loro volta pesantemente inquinati. Danno e beffa, insomma.
L’inquinamento ha fatto sì che i pm abbiano imposto lo stop al sito di Bagnoli per le preregate della Coppa America a causa della presenza di inquinanti . E l’anno scorso il professor Benedetto De Vivo, docente di Geochimica ordinaria presso l’Università Federico II di Napoli, aveva pubblicato dati sui sedimenti marini antistanti la colmata inquinata dell’arenile di Bagnoli. «La contaminazione delle acque, dovuta alle attività degli ex siti industriali Ilva-Eternit, risulta ancora oggi caratterizzata da elementi altamente cancerogeni quali gli Ipa (idrocarburi policiclici aromatici) e i Pcb, con concentrazioni di molto superiori alla media. Il Journal of Geochemical Exploration – si sottolinea – ha messo in evidenza anche un quoziente di rischio nei primi 20 cm dei fondali marini pari a 4.737 volte superiore alla norma: si trattava di una situazione di rischio per la quale era ed è obbligatoria, da parte delle autorità competenti, la messa in atto di interventi di messa in sicurezza e bonifica».
Gli abitanti di Bagnoli possono godere però del recupero del vecchio pontile: una bellissima passeggiata di un chilometro e mezzo che si estende come una lingua sul mare e che permette di ammirare i corruschi scheletri degli ex impianti, oggi esempi di archeologia industriale. Ben poco, vista la mole di investimenti: «In tempi relativamente brevi – ha detto in primavera il sindaco – saranno aperte le opere relative all’area, ma non ancora fruibili da parte dei cittadini: a giugno la Porta del Parco, a settembre il Turtle Point, per la fine dell’anno, probabilmente a dicembre, il Parco dello Sport». Ma giugno è passato, e l’inaugurazione della Porta del Parco (una struttura polifunzionale) annunciata già dall’autunno 2010, è destinata a slittare ancora.
Altra città, altro scenario. Se vogliamo, ancora più simile a quello di Taranto. «A Genova, nel 2002, solo grazie alla magistratura che ha ordinato la chiusura dei reparti più inquinanti (la cokeria), l’inquinamento è cessato. La salute di chi viveva sottovento è migliorata e generosi accordi con l’impresa hanno mantenuto un livello occupazionale accettabile». Lo ha scritto Federico Valerio, chimico ambientale, perito dell’accusa nel procedimento che portò alla chiusura della cokeria di Genova, in un intervento pubblicato sul suo blog federico-valerio.blogspot.it. «Taranto e Genova due città parallele – scrive – . A Taranto i periti della difesa cercheranno di smontare le accuse relative all’inquinamento puntando sul fatto che nell’area industriale tarantina non esiste solo l’acciaieria, ma nella zona ad ovest delle acciaierie opera anche un cementificio e una raffineria e, per non farsi mancare nulla, c’è anche il traffico della superstrada».
«La stessa linea difensiva è stata usata a Genova – continua Valerio – dove tutte le colpe sono state attribuite ai 30mila automezzi che ogni giorno attraversavano il quartiere, ma questa linea non è passata, alla luce delle numerose contro-deduzioni che il sottoscritto, in qualità di perito dell’accusa, presentò nel dibattimento che portò alla chiusura della cokeria di Genova. I fatti diedero ragione a me, alla Procura e al Giudice che ordinò la chiusura: il giorno dopo lo spegnimento di tutti i forni della cokeria, l’inquinamento dell’aria, in particolare il benzene e il benzopirene (entrambi potenti cancerogeni umani) crollò a livelli ampiamente al disotto degli obiettivi di qualità e così continua a essere, anche a pochi metri dalla strada lungo la quale continuano a passare i 30mila automezzi che, nel 2002, erano già in gran parte catalizzati. Pare che nessuno si preoccupi di capire se questa attività produttiva è compatibile con il rispetto degli obiettivi di qualità dell’aria e quindi della salute di chi quell’aria respira. Ancora una volta, in base all’esperienza genovese, possiamo prevedere quale possa essere la soluzione per Taranto.La tecnologia delle cokerie di Taranto e di Genova è quella degli anni ’50, assolutamente inadeguata a rispettare i limiti di legge e almeno dieci volte più inquinanti delle moderne cokerie che applicano la migliore tecnologia disponibile».
Anche per queste nuove cokeria vale la regola, dice il chimico ambientale, «rispettata in gran parte del mondo e basata sul principio di precauzione, di costruire questi impianti ad almeno due chilometri di distanza da zone abitate e da usi del territorio sensibili, quali produzione agricola, allevamenti animali, allevamenti di molluschi, usi presenti a Taranto e già pesantemente penalizzati. Temo di fare una facile profezia: prevarranno gli interessi industriali e il governo dei tecnici troverà qualche accorgimento tecnico (deroga, alzamento dei limiti…) per continuare a produrre, inquinando. E in questo caso l’unica bonifica sensata dovrebbe essere di trasferire tutti i 18mila abitanti a rischio in una “New Tamburi” ad alcuni chilometri di distanza, sopravento all’area industriale, ipotesi nient’affatto fantascientifica, visti i tempi: immaginate quanto tutto questo, inciderà sulla crescita del Pil. Comunque, continuare a produrre acciaio in questo modo non credo che sia una buona scelta per i lavoratori dell’Ilva, giustamente preoccupati di perdere il loro lavoro: la competitività mondiale nella produzione dell’acciaio non si vince con impianti obsoleti, prossimi alla rottamazione e poco efficienti, proprio perchè molto inquinanti».
*redattrice di Metro