Matera, dove ora il divano made in Italy è cinese

Matera, dove ora il divano made in Italy è cinese

MATERA – «A Matera, i capannoni che un tempo lavoravano per il miglior made in Italy del mobile imbottito, ora sono occupati da imprese cinesi». Questo aveva dichiarato qualche mese fa Fabrizio Pascucci, segretario nazionale della Feneal-Uil, intervistato in occasione di una delle tappe del viaggio nella manifattura. Siamo andati sul posto per toccare con mano la trasformazione della zona artigianale della città lucana, che fino a pochi anni fa era vocata quasi esclusivamente alla produzione di salotti.

«Una vocazione andata quasi completamente smarrita, mica solo per colpa dei cinesi, ma soprattutto per scarse capacità imprenditoriali e manageriali». Questo dice un imprenditore locale al quale chiediamo di avere qualche dritta per il viaggio nella zona, detta Paip. «Cinesi o no – aggiunge – la partita qui l’abbiamo persa sulla qualità e sul design, che avrebbero dovuto continuare a essere fattori distintivi rispetto alle merci estere…». La conseguenza della sconfitta, ben visibile, è che gli italiani, ex produttori di salotti, hanno definitivamente alzato bandiera bianca. Perché le insegne che contrassegnavano, fino a pochi anni fa, le loro sedi produttive, non ci sono più. In molti casi, ai cancelli degli stabilimenti sono affissi cartelli “affittasi” o “vendesi”.

In tanti altri casi, invece, i capannoni, i relativi macchinari e la produzione annessa sono passati di mano. Non dalla vecchia generazione di impresari del salotto materani a quella nuova. Ma a imprenditori cinesi. È questo il nuovo che velocemente è avanzato a Matera. I cinesi si sono inseriti in modo molto repentino nel tessuto produttivo locale e, giocando la carta dei prezzi stracciati, hanno spiazzato le imprese locali, già alle prese con una crisi strutturale del settore.

Le pochissime persone che incrocio sono cinesi. Sono loro i nuovi padroni della produzione materana di salotti made in Italy. Gente che lavora senza sosta. In barba, a quanti si dice, delle regole. E che non si cura di ostentare, alle pareti dei capannoni, insegne luminose o marchi accattivanti. Al posto di questi, a identificare la ditta, ma sopratutto a confermare che la Cina s’è presa un pezzo di industria italiana, ci sono scritte improvvisate, come Lin Salotti, Cina 20, Deng Divani. Insomma Matera, al pari di Prato e Forlì, è in mano cinese.

Una comunità, quella cinese, che a Matera conterebbe almeno 3 mila persone che in città fanno vita a sé. Non li vedi in piazza, nei supermercati, ai mercati rionali. La loro esistenza, all’insegna della dedizione completa al lavoro, si svolge nelle fabbriche. Quasi a voler difendere questo mondo a sé dagli altri, nonchè da occhi indiscreti, i cancelli delle imprese in mano cinesi, nonostante la produzione sia in corso, sono serrati nella grandissima parte dei casi. Dall’esterno non si sente il vociare tipico delle produzioni italiane. Gli unici suoni identificabili sono quelli metallici degli ingranaggi delle macchine che lavorano le pelli e quelli sordi delle pistole che sparano graffette e chiodi con cui vengono assemblati i divani.

Una delle storiche aziende del distretto, o meglio quel che ne resta

Nella camminata alla scoperta dell’imprenditoria cinese, passo davanti a un capannone, dietro i cui cancelli ci sono due uomini di etnia cinese. Si avvicinano incuriositi. Uno solo dice si sapere l’italiano. Sembra però restio a parlare, é sulla difensiva, quasi come se le domande siano vissute come una invasione straniera. La conversazione è surreale e non si capisce fino a che punto l’interlocutore non capisca ciò che dico o faccia finta di non comprendere.

Riferito alla generalità delle imprese della zona, Den conferma che «qui lavorano quasi tutti per Poltrone e Sofa e Chateau d’Ax». Non si tratta di una sorpresa, perchè il fatto era già emerso da una inchiesta condotta da Riccardo Iacona, così come da Report. Non stupiscono nemmeno gli orari di lavoro che Den dice vengano osservati: dalle 7 del mattino alle 21-22 di sera, con un paio di brevi pause. Quando, però, ci sono picchi di produzione, si lavora anche di notte.

Den dice che nella sua fabbrica lavorerebbe una decina di operai. Ciò appare inverosimile. Per via delle dimensioni dei capannoni. E perchè nel cortile sono parcheggiati 5-6 grandi contenitori d’acciaio zeppi di resti di produzione e che, non apparendo depositati là da tempo, non sono certo quelli tipici di una piccola azienda con 10 dipendenti. 

Ripasso davanti al capannone dell’imprenditore locale, la mia “guida” turistica alla zona. Gli racconto dell’incontro con il suo “collega” cinese e mi soffermo sui 10 dipendenti dichiarati. Dice, con amara ironia: «Sarà la cifra ufficiale formalizzata al centro per l’impiego… e poi gli ispettori del lavoro pare abbiano rinunciato ad accertare il vero numero di operai presenti nelle imprese cinesi!». 

Vado a far visita ai capannoni di Nicoletti, quello che è stato, fino al 2009, il più rilevante produttore locale di divani. E che, tra i primissimi nel suo settore, sperimentò la via della delocalizzazione a basso costo illudendosi di essere premiato dal mercato. I tentativi di salvare la Nicoletti sono andati tutti a monte, fino a quando, all’inizio dell’anno, è arrivata la dichiarazione di fallimento. Col risultato che poco meno di 500 addetti sono rimasti senza lavoro. Cosa ci sarà mai da vedere in un’azienda chiusa da tempo? Mi risponde sornione che «è chiusa ufficialmente» e ci invita ad andare a farci un giro.

Mi incammino lungo una strada ai cui lati ci sono piccole aziende della filiera produttiva di divani. Gestite, anche queste, da imprenditori di etnia cinese. E tutte organizzate nello stesso modo. Sul loro fronte, dove un tempo c’erano gli uffici, ora ci sono gli alloggi dei lavoratori cinesi. Installazioni classiche sono dei fili dove sono appesi i panni ad asciugare e una antenna parabolica. Sul retro invece c’è la produzione. Insomma i cinesi sono tutto casa e lavoro, un po’ come usavano fare i piccoli imprenditori del nord est prima di diventare grandi. Giunto allo stabilimento di Nicoletti, si nota che la grande insegna blu con la scritta Nicoletti è ancora presente sul terrazzo che sovrasta l’area produttiva. Faccio le scale per raggiungere il terrazzo e mi ritrovo di fronte all’ingresso di un’attività che pare essere uno spaccio di divani. Affisso alla porta di entrata dell’esercizio c’è l’avviso di chiusura per ferie e dentro c’è effettivamente un buon assortimento di divani. Ma prodotti da chi? E poi come è possibile che nei locali di un’azienda fallita, quale è Nicoletti, vi si organizzi uno spaccio?

Altre aziende locali

La risposta a questi interrogativi arriva quando, diretto verso i cancelli degli stabilimenti produttivi, mi imbatto in un gruppo di lavoratori cinesi. In questo caso sembrano meno diffidenti di quelli dell’azienda precedente. Mi fanno entrare e con uno di essi, che dice di lavorare per l’emittente radiotelevisiva locale Europa Cina Tv, intavolo una discussione. Gli chiedo che cosa ci fanno, lui e gli altri che intravvedo, nei locali di un’azienda dichiarata fallita. Mi fa capire che questi capannoni, diversamente da quelli principali presenti nell’altra zona artigianale di Matera (La Martella) non sono entrati nel patrimonio con cui sono stati pagati, in minima parte, i numerosi creditori della famiglia Nicoletti. Racconta che la produzione non è più quella degli scorsi anni, «quando usciva dalla fabbrica un container alla settimana». Gli domandiamo per chi produce.  Risponde che i divani vengono commissionati dalla Nicoletti Home, la nuova creatura dell’omonima famiglia, nata sulle ceneri della Nicoletti Divani e che sul proprio sito web si fregia di produrre made in Italy. «Qui, come nelle altre fabbriche, gli italiani non lavorano più», dice. Né quelli forzosamente estromessi dalle catene produttive delle imprese che hanno chiuso i battenti. Né i giovani del posto.

Eppure, da queste parti le stime ufficiali parlano di una disoccupazione giovanile superiore al 50 per cento. Ciò nonostante i giovani materani pare non ne vogliono sapere di buttarsi sul mercato della produzione di salotti. Magari riempiendo di ricerca, tecnologia e design la cultura artigianale dei propri padri. Tanti preferiscono vivere di sussidi ed erodere il patrimonio e i risparmi di famiglia, pur di vestire con le migliori griffes e di frequentare i locali notturni alla moda spuntati come funghi nei Sassi.

Il “tour” prosegue in una parte della zona artigianale che invece appare definitivamente abbandonata, dove le erbacce hanno avvolto i piazzali degli stabilimenti e non ci sono neppure gli avvisi “affittasi capannone” visti altrove. Spinto dalla curiosità e “scortato” a distanza da un membro della comunità cinese a cui è giunta forse notizia della mia presenza in zona, approdo infine in un’azienda che integra imprenditoria italiana e cinese. Così almeno appare leggendo le due targhette sul citofono. Una identifica una storica impresa che realizza fusti in legno per salotti. L’altra (Lin Salotti) invece individua il produttore cinese di divani. Mi chiedo, sicuramente con un pizzico di illusione infantile: sarà forse questa la frontiera del distretto dei salotti, che poco meno di 10 anni fa valeva oltre 2 miliardi di fatturato e dove si realizzava più del 10 per cento della produzione mondiale di divani? 

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