Le lacrime. L’ammissione. La disperazione. Così viene presentata la conferenza stampa di Alex Schwazer. La confessione del viaggio in Turchia, il passaggio sulla fidanzata Carolina Kostner (secondo coloro i quali che la sanno lunga con l’obiettivo di scagionarla dall’eventuale accusa di omessa denuncia), qualche risposta alle tante domande sul medico Ferrari e il suo pianto. Lo hanno immortalato in ogni modo. E da ogni posizione.
Ma non è tutto. Anzi, non è niente. Perché la conferenza stampa che Schwazer ha tenuto oggi a Bolzano va vista integralmente. Cinquantuno minuti. Per notare che l’olimpionico di Pechino, beccato con tracce di Epo nel sangue alla vigilia della sua partenza per Londra per difendere l’oro nelle 50 chilometri di marcia, non piange sempre. Anzi. Man mano che riesce a liberarsi del suo peso, il suo aspetto cambia. Sarebbe interessante il parere di uno psicologo. Il volto di Schwazer cambia, quasi si trasmuta, persino la posizione diviene più eretta e lui più spigliato nell’eloquio.
Ma che succede durante la conferenza stampa? Succede quello che nessuno vuole ascoltare. Alex odiava la marcia. Non ne poteva più. Degli allenamenti. Della fatica. Del dovere della vittoria. Di essere trattato «da coglione» (testuale, ndr) per aver sbagliato una gara. Di essere attaccato. Insomma, non ce la faceva a sopportare il peso di essere un fuoriclasse, con tutto quello che comporta.
Somiglia incredibilmente al personaggio di “Habemus papam”, il film di Nanni Moretti sul cardinale che non ne vuole sapere di accettare il verdetto del conclave che lo ha eletto papa. Una sorta di Celestino V dell’atletica leggera o, meglio, dello sport italiano.
Qualcosa che non convince, nel racconto di Schwazer, c’è. Ma basterà poco per saperne di più. Dal punta di vista farmacologico. Le indagini faranno il loro corso, nella speranza che l’inchiesta non diventi un modo per regalare notorietà a un pm, come accadde nel caso di Marco Pantani.
Quel che invece appare chiarissimo dalle sue parole è l’aspetto psicologico. Schwazer non tollerava più il suo lavoro. Non ne poteva più. Degli allenamenti, della vita sacrificata, di uno sport che non gli piaceva e non lo divertiva. «A Carolina piace il pattinaggio, lei si allena perché si diverte. Io no, io marciavo perché ero il più forte, perché vincevo». Del resto, lo ha chiarito, avrebbe potuto sottrarsi al controllo antidoping.
È difficile a dirsi e impossibile a farlo capire. Qualcosa del genere lo ha scritto Andrè Agassi nella sua biografia, “Open”. Ma nei confronti del tennis lo statunitense provava un sentimento di odio-amore, fortemente condizionato dalla figura del padre. In fondo, nonostante tutto, Agassi amava il tennis, o comunque non è mai riuscito a smettere. Non a caso lo ha giocato fino a tarda età.
Il racconto di Schwazer è il racconto di un ragazzo che probabilmente non ha retto lo stress e sicuramente non ha avuto la forza di imporre i suoi sentimenti agli altri. Gliel’hanno fatto la domanda: “Scusa ma non potevi semplicemente ritirarti invece di doparti?”. «Secondo te era così facile? – ha risposto – Provaci tu a dirlo quando tutti quelli che ti circondano dicono che è da matti mollare, che sei il più forte, che nessuno ha vinto una medaglia d’oro nella marcia a 23 anni. Sai quante volte ho detto a casa che volevo mollare?».
Ma il punto non sono le parole. È il suo volto mentre le pronuncia. È un’altra persona, finalmente liberata. Quello sì che andrebbe fotografato. A tratti persino sorridente. E sereno. Al punto da spiegare o comunque far capire benissimo come funziona lo sport in Italia, quanto irrilevante sia stato il ruolo della Federazione atletica, come lui abbia cercato da solo un allenatore che potesse seguirlo. E quanto sia impossibile da noi essere un atleta se non si appartiene a un gruppo sportivo che ti paga lo stipendio. Eccezionale la frase su Ferrari, il medico di Ferrara da sempre sospettato di doping: «L’ho cercato per avere una tabella sulla resistenza fisica, non certo per un’assistenza tecnica. Lui capisce di marcia quanto me di fiori».
A quel punto, Alex è un fiume in piena. Un uomo liberato. Libero. Sicuro di sé. Che racconta di quanto sia dura la vita di un marciatore. Di come persino una birra ti faccia venire i sensi di colpa. Degli sfottò che da sempre accompagnano i suoi allenamenti, da quando aveva sedici anni. Di quanto, in fondo, fosse condannato a quella vita semplicemente perché era il più forte. Andrebbe rimandata in prima serata a reti unificate. Per spiegare. Per far capire.
«Non posso dire come la gente mi deve giudicare. In questo mio errore ho cercato di essere il più onesto possibile». Ha ricordato come, da sempre, avesse sostenuto la squalifica a vita per chi si fosse macchiato della colpa più infame, quella di barare. Come per tranquillizzarsi, come per assicurarsi che nessuno gli conceda una seconda chance.
E poi certo gli occhi del campione brillano quando ripensa a quello che ha fatto. Quando fa capire che se non avesse avuto mire sulla venti chilometri, dove gli serviva lo sprint, e si fosse dedicato solo alla cinquanta, avrebbe vinto anche senza doparsi. «Purtroppo nella vita uno deve fare solo quel che sa fare, altrimenti sbaglia come ho fatto io»
Trova anche il tempo di fare una battuta. Sull’unico sponsor, la Despar, che non lo ha abbandonato. «Li ringrazio, anche se ora non so davvero cosa potrei fare per loro, al massimo potrei andare a lavorare in qualche filiale». Dice che la vita normale non lo spaventa. «Vorrei fare un lavoro che mi desse soddisfazione e vedere la mia fidanzata tutte le sere, non una volta al mese. E anche i miei genitori. Io sono una persona normale, il lavoro non mi spaventa».
Chissà, forse non è proprio così. Tra qualche tempo le luci della ribalta potrebbero mancargli. Oppure, invece, potremmo ritrovarlo sereno nella sua falegnameria in Alto Adige, felice di aspettare il figlio che esce da scuola.