Stadi di proprietà moderni e funzionali, pensati per le manifestazioni sportive ma progettati per vivere tutto l’anno. E da costruire con tempi tecnici brevi. Fino a qualche anno fa sembrava fantascienza, fra sei settimane potrebbe essere realtà. La Commissione cultura della Camera ha approvato il disegno di legge sugli stadi, che ora dovrà passare al vaglio del Senato. Fra poco meno di due mesi il nostro Paese potrebbe così avvalersi di una legge che segnerebbe uno spartiacque tra il vecchio modello – quello degli stadi finanziati dai soldi pubblici, con enormi sprechi che ancora gridano vendetta come quelli dei Mondiali di Italia ’90 – e un nuovo corso fatto di strutture più piccole, funzionali e capaci di generare maggiori introiti per i club che ne diventerebbero i proprietari. Una legge che permettere alle squadre italiane, così come sta facendo la Juventus con il suo nuovo Stadium, di tornare a competere con le altre grandi realtà europee e di sistemare i conti in vista del ‘Fair play finanziario’ varato dal presidente Uefa Michel Platini. Un’intenzione espressa con chiarezza dal ministro del Turismo e dello Sport Piero Gnudi: «È l’inizio di un percorso per migliorare gli stadi italiani e metterci al passo con il calcio europeo».
La nuova legge è stata pensata per snellire i tempi tecnici e la pesante burocrazia che ogni privato è costretto a sobbarcarsi per costruire un nuovo impianto. Per fare un esempio, lo Juventus Stadium, la nuova casa dei bianconeri neo campioni d’Italia, ha avuto una gestazione molto lunga: dal progetto alla sua inaugurazione sono passati tre anni, nonostante dietro ci fosse un privato potente come la famiglia Agnelli e nonostante l’ampia disponibilità garantita dal Comune di Torino nell’appoggiare il progetto.
Cosa prevede il disegno di legge approvato dalla Camera? La parola d’ordine, come detto, è semplificazione. L’obiettivo principale è quello di accorciare i tempi per la realizzazione o ristrutturazione di impianti sportivi di almeno 7.500 posti a sedere allo scoperto e 4.000 al coperto. Gli impianti dovranno essere dotati di telecamere a circuito chiuso, garantire l’accesso ai disabili e spazi per le attività sociali, oltre a ospitare bar, negozi e ristoranti che permettano alle nuove strutture di vivere tutto l’anno. I tempi tecnici seguiranno una tabella che possiamo riassumere così. Il soggetto proponente, che può essere un Comune o un privato, avvia uno studio di fattibilità per individuare l’area per la nuova struttura. Entro 90 giorni dalla presentazione dello studio, l’autorità comunale compila un accordo di programma: le altre autorità daranno il loro assenso nella conferenza dei servizi in base alla disciplina prevista dalla legge 241/90, che si applica anche nella valutazione dell’impatto ambientale. Se l’area individuata è di proprietà del Comune, questo può cederlo a titolo oneroso – e tramite assegnazione diretta – al privato, che a sua volta si impegna, firmando una convenzione di durata minima di dieci anni, a utilizzare l’impianto per fini commerciali e sportivi.
Un iter che non durerà tre anni come nel caso dello Juventus Stadium e che dovrebbe aiutare a sciogliere nodi importanti come quelli di Palermo e Cagliari, dove i rispettivi proprietari dei club cittadini hanno pronti i progetti ma sono da oltre un anno in rotta con le amministrazioni cittadine. Nel capoluogo siciliano, il presidente dei rosanero Maurizio Zamparini già la scorsa estate aveva dichiarato entusiasta che il nuovo stadio del Palermo si sarebbe visto in sei mesi. Dopo un anno, ancora nessuna pietra è stata posata. Il progetto si è incagliato, ma nell’ultimo mese ha ripreso quota, tanto che il sindaco Leoluca Orlando avrebbe addirittura dato il suo assenso, ottenendo però la costruzione del nuovo impianto in una zona nuova (che già Zamparini aveva individuato nell’area dello Zen) e non il riammodernamento dell’attuale stadio comunale ‘Renzo Barbera’: un ottimo modo per l’amministrazione cittadina di non perdere altri soldi dall’affitto dell’impianto.
A Cagliari invece la questione è ancora più spinosa e ha portato a guerra di nervi che ha coinvolto il proprietario del club sardo Massimo Cellino, il sindaco della città Emiliano Zedda e i vertici dell’Enac dell’aeroporto di Elmas, vicino al quale sarebbe dovuto sorgere il nuovo stadio. L’attuale impianto, il Sant’Elia, era nato nel 1970 e ristrutturato durante quella grande abbuffata di denaro pubblico che gli appassionati conoscono con il nome di Italia ’90. Una struttura che nel 2002, dopo quindi nemmeno 12 anni di nuova vita, era già vecchio. L’agibilità gli è stata revocata quest’anno, tanto che il Cagliari è dovuto emigrare a Trieste: il Comune non aveva i soldi per ristrutturarlo. Cellino aveva già in tasca il progetto del nuovo stadio, la Karalis Arena, da costruire a Elmas, comune attaccato a Cagliari e sede dello scalo cittadino. L’amministrazione locale era d’accordo, ma non Enac e Sogaer, la società che gestisce l’aeroporto e che aveva scelto lo stesso terreno di Cellino per ampliare lo scalo. Da qui è nato un contenzioso risolto a svafore di Cellino dalla Commissione Impianti Sportivi del Coni, che ha dato parere negativo sulla costruzione della Karalis Arena. La questione non si è esaurita: il proprietario del Cagliari ha avviato i lavori di ristrutturazione dell’impianto ‘Is Arenas’ di Quartu S.Elena, per poi tendere la mano a Zedda: «Non voglio lasciare Cagliari». Chissà che la nuova legge non distenda gli animi.
La legge permetterebbe inoltre alle squadre italiane di allinearsi ad altre realtà europee sul piano della competitività economica, facendo dipendere sempre meno i bilanci dei club dai diritti tv e diminuendo i rischi di sanzioni Uefa nell’ambito del ‘Fair play finanziario’. Basta fare un rapido confronto con il resto d’Europa. Il Real Madrid con 480 milioni di euro è la squadra con più introiti nell’ultimo bilancio 2011: di questi, 149 milioni arrivano dai proventi dello stadio di proprietà e 153 dai diritti tv. Discorso molto simile per gli inglesi dell’Arsenal: 283 milioni di entrate, di cui 103 dallo stadio e 95 dai diritti. In Italia, il Milan ricava 30 milioni dallo stadio e 110 dai diritti tv (cifre pressoché simili sono quelle dell’Inter). E guarda caso, Real Madrid e Arsenal sono le uniche assieme a Bayern Monaco e Napoli (l’unica del quartetto a non avere uno stadio di proprietà) che attualmente non rischiano punizioni dalla Uefa: Platini dal 2014 sanzionerà tutti quei club che nel biennio 2012-14 avranno un passivo superiore ai 45 milioni di euro. La Juventus è ancora sotto il parametro, ma ha incassato 14 milioni di euro dal nuovo stadio e di questo passo non incomberà nelle ire di Monsieur Platini.
Insomma, la legge dovrebbe segnare uno spartiacque tra il nuovo modello costituto da stadi funzionali e il vecchio modello che avuto il suo momento più basso durante i Mondiali di calcio del 1990. Privato contro pubblico, redditività contro spreco di denaro statale (cioè nostro). I 14 milioni che la Juve si è messa in tasca grazie allo Stadium contro «La grande occasione per il Paese» (parola del manager della competizione, Luca Cordero di Montezemolo) che ci costò 3.500 miliardi di lire di stanziamento iniziale per costruire nuovi impianti o ristrutturane di già esistenti. Una occasione che ci ha lasciato in eredità cattedrali nel deserto come il ‘San Nicola’ di Bari o il bello ma caro ‘Giuseppe Meazza’ di Milano, che costa a Milan e Inter 8,4 milioni di euro all’anno di affitto da versare a Palazzo Marino. Per non parlare degli oltre 200 miliardi di lire spesi per la copertura totale dell’Olimpico di Roma. L’allora ministro per il Turismo (con delega allo sport) Franco Carraro, il segretario del Coni Mario Pescante ed altri grandi nomi del mondo sportivo italiano finirono alla sbarra: il costo della copertura, fatta passare come indispensabile per far ospitare all’Olimpico la finale del Mondiale, lievitò in maniera sospetta del triplo. Tutti furono assolti. Qualche anno dopo Italia ‘90, Carraro diventerà presidente della Impregilo, nata da una fusione di cui fece parte la Cogefar Impresir, società coinvolta nei lavori dell’Olimpico.
Tutto nuovo e tutto bello. Forse. D’altronde siamo in Italia, il Paese dove esiste il detto ‘Fatta la legge, trovato l’inganno’. Chiedere al senatore Pd Roberto Della Seta, capogruppo in commissione Ambiente: «Così com’è la legge sugli stadi è indecente, rappresenta un via libera a realizzare interi quartieri in deroga agli strumenti urbanistici e ai vincoli paesaggistici e archeologici. Se la commissione Cultura in sede legislativa lo approverà nella versione attuale, faremo di tutto perché il Senato lo modifichi radicalmente». Una posizione condivisa dall’Istituto nazionale di urbanistica, che ha parlato di «Involuzione e arretramento culturale nel modo di pianificare, progettare e governare le città che tale legge prefigura». E anche Legambiente ha voluto dire la sua, spiegando che l’esempio dello Juventus Stadium dimostra che gli stadi di proprietà si possono fare comunque: «Non servono quindi, procedure semplificate che aggirino vincoli e regole urbanistiche, o peggio che stravolgano il piano urbanistico delle città, ma solo regole certe e obiettivi condivisi». Ma Legambiente ha fatto di più: la sua sezione laziale ha pubblicato un dossier che dimostra, in sostanza, che Roma e Lazio non faranno altro che provocare seri danni ambientali nelle zone scelte dentro o attorno alla capitale per costruirsi i propri nuovi impianti. «La legge sugli stadi e sui nuovi impianti sportivi va ritirata», ha attaccato a fine maggio scorso Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. Fra sei settimane sapremo se la nuova legge verrà varata, o se subirà nuove e importanti modifiche.