Qualche giorno fa il governatore Ignazio Visco ha detto che «va accresciuta la presenza femminile nei consigli». L’idea di fondo è che la «diversità nelle sue molteplici accezioni… allarga le prospettive di analisi, riduce l’uniformità dei comportamenti». Anche se la questione delle quote rosa e più in generale della filosofia che sottende le azioni positive suscita diversa opposizioni e critiche, è un fatto che da poco più di un mese, inoltre, è entrata in vigore una legge che impone che i cda delle società quotate e di quelle a partecipazione pubblica siano composti per almeno un quinto da donne (un terzo dal 2015).
Il governatore Visco, però, sa bene che messa così (“più donne in cda”) la questione – la rimozione degli ostacoli che impediscono l’ascesa del talento professionale femminile nelle aziende e nelle istituzioni – è malposta, o quanto meno posta in modo incompleto. Lo sa per esperienza diretta: dopo l’uscita della vicedirettrice generale Anna Maria Tarantola, non aveva scelta altra scelta che nominare un uomo nel direttorio. (Si poteva ricorrere a una scelta esterna, è vero, ma in Via Nazionale è tabù).
Il motivo è presto detto. Nella prima linea della dirigenza Bankitalia, quella che corrisponde ai dodici funzionari generali, non figura una sola donna. Anche nel livello immediatamente inferiore, cambia poco: su 49 condirettori centrali le donne sono tre. La situazione migliora se si scende più in basso lungo i gradi della gerarchia. Sul totale dei dipendenti avviati alla carriera direttiva, le donne a fine 2011 erano il 39 per cento. Nella parte alta dell’organigramma di Via Nazionale, dunque, c’è un vuoto di presenza femminile che si è evidentemente prodotto nei decenni, e che richiederà molto tempo prima di essere riempito. Questa situazione richiede perciò un approccio che va oltre la «presenza femminile nei consigli».
Se il governatore Visco crede davvero che la “diversità” sia un valore civile, che dà peraltro anche frutti economici, dovrebbe, da un lato, adoperarsi perché l’ingresso di donne nei cda delle banche non si risolva in una distribuzione di incarichi secondo logiche di relazione, e, dall’altro, invitare le banche a formulare piani seri e credibili che rimuovano dal basso i tappi che ostruiscono l’ascesa del talento femminile.
L’ingresso in cda delle banche quotate è una questione che toccherà alcune decine di professioniste, quello dell’avanzamento oltre i gradi della carriera impiegatizia tocca invece migliaia e migliaia di donne. Nulla spiega meglio il problema di questi numeri relativi a Unicredit. Sul totale dei dipendenti di Piazza Cordusio in Italia, le donne sono il 43%, percentuale che scende al 35% nel “middle management” (i quadri direttivi intermedi) e crolla al 14% fra i dirigenti veri e propri. I dati di Intesa Sanpaolo non sono molto diversi: in Italia il 49% dei dipendenti è donna, ma le donne sono il 58,5% degli impiegati, il 38,2% dei quadri direttivi e solo il 12,6% dei dirigenti veri e propri. Un dato incoraggiante, per il gruppo guidato da Enrico Cucchiani, è poi il fatto che il 32% dei direttori di filiale in Italia è donna. Per i due gruppi, che pure sono fra le banche che più “aperte”, pesa certamente una questione generazionale e, via via che si procede al ricambio, la percentuale cresce, anche se con lentezza.
Perciò, quando l’Abi dice che il 43% della popolazione totale dei bancari è donna, si vanta di un dato che in sé significa poco. I dati della stessa associazione mostrano che a fine 2010 sul totale dei dirigenti le donne sono il 12,5 per cento. Non che ci sia da inventare chissà cosa. Basta guardare a quello che fanno diverse multinazionali, anche in Italia: quando si valutano le assunzioni di neolaureati o viene dato un mandato a un head hunter per le posizioni di maggiore responsabilità, vale la regola che almeno il 50% delle candidature sia di sesso femminile; quando si decidono le promozioni, almeno la metà delle proposte riguardano donne. Attenzione: si parla di proposte e non di “quote” prestabilite. La presenza di una manager delle pari opportunità nelle commissioni che decidono può infine servire non tanto a “spingere” una donna ma a verificare che l’eventuale promozione di un uomo avvenga sulla base di puro merito e non per discriminazione.
Implementare un sistema di pari opportunità capace di incidere sui meccanismi di selezione e promozione, favorendo il merito a prescindere dal genere, è più arduo che decidere chi cooptare in cda. Ci vuole fatica, investimenti, e soprattutto tempo. Se, però, si vuole evitare che le quote rosa finiscano in un simulacro vuoto, tanto le banche quanto le imprese non hanno altro scelta che intervenire lungo tutti i gradini dell’organigramma.
Twitter: @lorenzodilena