A guardare la cartina si nota subito che le Officine Meccaniche Biffi, di cui Giovanni Biffi, l’imprenditore colpito alle gambe in un attentato è uno dei titolari, sono a Basiano, in provincia di Milano. Si trovano alle porte (anzi, già dentro) alla Brianza. Insomma, fanno parte anche loro del tessuto di storie di impresa che, da mezzo secolo almeno, caratterizza questa area del Paese. Come Giovanni Biffi, tanti altri hanno cercato di creare un’azienda, di farla crescere, e ci sono riusciti. Alcuni l’hanno allargata, creando un business che è diventato internazionale, e fissando nell’immaginario la figura tipica dell’imprenditore, lavoratore instancabile, affamato di successo e pieno di voglia di creare. Ma c’è ancora?
«Le cose sono cambiate», spiega a Linkiesta Daniele Marini, Professore associato di Sociologia dei Processi Economici e delle Trasformazioni del Lavoro presso l’Università di Padova, e Direttore scientifico della Fondazione Nord Est. «Il mondo imprenditoriale si è trasformato, lungo tutta la fascia del nord Italia che va dall’astigiano e arriva fino al Veneto. E di conseguenza, anche la figura dell’imprenditore non è più la stessa. Tracciare l’identikit che apre una sua ditta e con il solo lavoro costante la fa crescere, ormai è un ritratto d’antan», spiega. Anche se ci sono delle «continuità. Come, ad esempio, il rischio e la capacità di rischiare. E la tendenza a uscire da un’azienda, in cui si è dipendenti e spesso operai, per aprirne una nuova dopo avere imparato il mestiere».
Per il resto, «il processo attuale vede una forte selezione dell’imprenditoria», che si può vedere in «due polarizzazioni, cioè le imprese che innovano, che si aprono a nuove esperienze e cercano l’internazionalizzazione – spesso quelle più grandi – e poi ci sono quelle più piccole, che restano nella loro nicchia, e che sembrano destinate a non crescere e perdere terreno». A questo processo, si aggiunge una maggiore attenzione «per le reti di impresa, che permettono delle forme di crescita diverse: non più verticali, ma orizzontali. In sostanza, non è detto che per diventare più grandi serva diventare più grossi, ma con più legami, connessioni, reti di contatti e collaborazioni». Un nuovo tessuto per una nuova epoca? «Il panorama è cambiato. E c’è da dire anche questo: venti o trent’anni fa era più facile aprire un’impresa. C’erano meno regole, controlli e tasse. Oggi è diventato molto più complicato, anche solo dal punto di vista burocratico, per non parlare di tasse, permessi, controlli, e non dimenticando il mercato».
E così anche la specie degli imprenditori si evolve, «e sono di più le differenze, dal punto di vista antropologico, rispetto alle somiglianze. Diciamo che le vecchie generazioni hanno seguito il modello fordista, in cui il capo si occupava di ogni passaggio del processo produttivo. Il “faso tuto mi”, come si dice in Veneto. Una struttura verticale, accentrata che ricalca molto il modello di partenza, che è quello dell’artigiano». I giovani, invece, che spesso sono i figli, «seguono un modello post-fordista. Rimane, senza dubbio, una figura centrale, ma non è più l’unico. Si circonda di un team, una squadra di collaboratori a cui delega. E questo è un passaggio importante, perché presuppone una diversità di vision fondamentale». Del resto, «anche la formazione è diversa. La generazione dei genitori aveva un’esperienza di tipo professionale acquisita lavorando, e dal punto di vista scolastico bastava la terza media». I giovani, al contrario, «hanno di sicuro il diploma, molti la laurea, esperienze all’estero e conoscenza delle lingue. Requisiti essenziali per un’economia globalizzata», spiega.
E da qui si capisce come, al di là delle figure stereotipate, le cose cambiano. Generazioni passano e affrontano la questione in modo diverso, con un mondo che corre più veloce. Un tempo per ogni cosa, anche per la fitta rete dell’imprenditoria del nord.