Nadia Urbinati, lei mette in guardia contro i rischi che comporta il diffondersi di una concezione elitaria della democrazia. Può spiegare?
Io partirei dall’Italia del dopo Berlusconi, perché è un caso esemplare di un fenomeno più generale. A me interessa riflettere sulle conseguenze che questi vent’anni di discussioni su, contro o per Berlusconi come fenomeno centrale della nostra vita politica, hanno avuto sulla visione della politica e della stessa democrazia. La prima, e più rilevante, conseguenza è una crisi di fiducia nella democrazia. Questa, come sappiamo, è sia un sistema di regole, procedure e istituzioni, sia un modo di fare politica e di operare nel pubblico per mezzo di opinioni, movimenti, proposte, critiche, eccetera. Sono due forme di azioni diverse finalizzate a un unico scopo: prendere decisioni (fare leggi) con il sostegno della maggioranza numerica, ma all’interno di un processo politico che coinvolge tutti.
Ebbene, oggi, mentre da un lato l’aspetto normativo e procedurale diventa sempre più oggetto di critica e di scetticismo (pensiamo alla critica ai parlamenti e alla rappresentanza) per l’uso perverso che ne è stato fatto da parte di chi svolge e ha svolto funzioni politiche, dall’altro lato la democrazia diventa un oggetto di scontro e confronto partigiano come fosse un’ideologia a tutti gli effetti, quindi criticabile da parte di altre ideologie, trasformabile in qualcos’altro. Se la democrazia diventa un’ideologia allora è prevedibile che abbia un alter ego ideologico che le fa da controcanto e l’alter ego della democrazia è, da sempre, una politica fatta dai pochi, non dai molti.
Questa ideologia anti-democratica può prendere forme radicali e violente (come un colpo di stato militare, ad esempio in Cile nel 1973) o invece forme più blande e perfino benevole: i pochi, si dice in questo caso, fanno il bene dei tanti perché mettono le loro competenze o le loro fortune al servizio del governo della società. Questo si chiama paternalismo dell’élite, un governo di pochi per il popolo (ma possibilmente non per mezzo del popolo). La critica può essere radicale: la democrazia, in questo caso, è dichiarata inaffidabile non solo perché produce corruzione, ma anche e soprattutto perché è inefficace e incapace di risolvere problemi che sono sempre più tecnici, specialistici, specifici, che richiedono velocità di intervento, competenze e sapere tecnico, fattori che per voto o per scelta ideologica non possono essere visti e nemmeno selezionati. Secondo il paternalismo dell’élite, occorre allora un selezionante che sia fuori dai giochi e che scelga il personale politico in ragione della sua competenza (è interessane che anche il movimento demagogico per eccellenza, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, si serva di curriculum vitae per selezionare gli assessori e formare le giunte: la competenza viene prima del consenso degli elettori, e anzi è una ragione per la quale viene richiesto il mandato agli elettori). Il principio gerarchico si sostituisce al principio egualitario, e quindi al giudizio politico che in questo modo perde la sua specificità e diventa una sottospecie di giudizio competente e tecnico. Con la decadenza del consenso elettorale si ha la decadenza del giudizio politico, del quale molti cominciano a dubitare proprio perché è endemicamente non riducibile a nessuna specifica competenza e basato su valutazioni di tipo civico o etico (coraggio, prudenza, lealtà, rispetto della legge, ecc.) che non dipendono da quel che si sa o si conosce, benché quel che si sa e si conosce possa indirizzare il giudizio su che cosa fare o non fare. Detto in maniera schematica, questo è lo scenario.
Perché l’Italia è esemplare? Perché in Italia questi vent’anni di cattivo governo e di cattivo uso delle istituzioni democratiche hanno favorito queste forme di critica anche radicali alla democrazia e hanno fornito una giustificazione positiva alla riduzione del peso della politica democratica a favore di selezioni del personale politico per vie non elettorali; oggi la competenza dei pochi ha più autorevolezza del volere dei molti (del resto, l’appello alla “volontà popolare” del quale si è abusato durante gli anni berlusconiani, sia con l’uso strategico di elezioni anticipate sia con l’arma subdola dei sondaggi, ha in qualche modo giustificato questa diffidenza nelle forme democratiche).
Stiamo parlando, ovviamente, del governo Monti…
Questa purtroppo è una situazione che mette noi, i democratici, in una situazione molto delicata, perché non possiamo non essere contenti, e sostenitori, di un governo che, dopo l’esperienza precedente, terrificante da tutti i punti di vista, ci ha ridato credibilità a livello internazionale, ha riportato la politica nell’alveo delle cose pubbliche (di ciò che deve fare per la società), lasciando perdere tutte le questioni private e morali di cui abbiamo subìto per anni le conseguenze. Come non essere contenti che la politica della maggioranza eletta sia stata messa tra parentesi per ragioni buone e da parte di personalità che hanno dalla loro la competenza, l’onestà, il rigore, il riconoscimento nazionale e internazionale? Quindi noi stessi democratici proprio perché abbiamo avuto a che fare con un governo popolarmente eletto, democratico, dei peggiori, ci troviamo a sostenere soluzioni che esaltano il ruolo delle competenze, delle virtù qualitative e che mettono una sordina a tutte le altre arti o pratiche che in una democrazia sono importanti: la retorica, la partigianeria, il vincere il consenso, l’essere parte di una opinione pubblica, ecc. ecc.
Come si vede, una situazione oltremodo imbarazzante, soprattutto per chi è democratico. Ovviamente per un antidemocratico, per chi è scettico sul valore della democrazia, il problema non esiste, è semplicemente una conferma della sua posizione realistica: se la decisione è buona il governo è un buon governo, punto.
Con questo, intendiamoci, non voglio dire che il democratico non sia realista, che abbia una visione di legittimità, una concezione di buon governo diversa da quella del realista: però un democratico pensa che un governo lo si definisce buono non a partire dalle conseguenze, dagli esiti, ma dalla struttura di legittimità che lo impegna ad essere sempre rispondente ai cittadini e che tiene chi governa sotto i riflettori di chi obbedisce. Il realismo del democratico non prescinde da questi principi di libertà. Se noi guardiamo solo alle conseguenze, agli effetti, e non ci interessa il modo in cui la decisione viene presa, allora perché non obbedire a un buon maestro, a un buon capo, a un buon padrone, a un buon dittatore? Ma sempre di capi e padroni e dittatori si tratterebbe!
Quindi è anche una situazione psicologica difficile…
Che ci porta a essere muti. È il silenzio dei democratici, perché per difendere le regole della maggioranza e della quantità dall’attacco micidiale della competenza e della designazione per capacità, per difendere, cioè, la democrazia dalla gerarchia, in questo momento i democratici non hanno argomenti.
Oltretutto la situazione che vive il nostro paese è ancora più deprimente perché noi non abbiamo avuto solo Berlusconi, ma anche l’erosione dei partiti politici. La quale è avvenuta, a sua volta, per effetto di due pressioni concomitanti: una dovuta a tangentopoli, che in campo conservatore ha portato alla sparizione dei partiti-partito e alla nascita dei partiti-leader, i partiti-populisti, i partiti azienda, i partiti di qualcuno, il capo popolo, che si è manifestato anche a sinistra, dopo la scomparsa del Psi e del Pci; l’altra pressione si è avuta con il diffondersi dell’idea molto opinabile che l’unica cosa da fare per ridare dignità alla democrazia fosse eliminare i partiti perché questi, essendo organizzati e strutturati erano comunque elitisti (pensiamo all’idea di Roberto Michels, secondo cui l’organizzazione comporta sempre una elite e mai l’eguaglianza di cui parlano i democratici) ostacolavano lo sviluppo di una democrazia più realizzata. Secondo questa visione, affinché il popolo, il pubblico avesse una centralità occorreva eliminare i partiti-organizzazione e trasformarli in partiti-opinione, “partiti-issue”, basati cioè su problemi, partiti di problemi, diciamo così, con forti personalità che li guidavano e avevano visibilità e niente organizzazione. Questo fu il sogno inseguito da Walter Veltroni: fare un partito che non avesse più organizzazione ma fosse identificato intorno al leader. Il popolo dei democratici, che andava a votare a milioni per il leader, era un popolo plebiscitario – e infatti non votava per il leader, ma incoronava il leader con risultati bulgari. Al partito azienda, il cui leader era anche il padrone, il partito democratico nato a Torino fu e voleva essere un partito del leader, plebiscitario, benché non proprietario. Ma la logica era la stessa in entrambi i casi, anche se i mezzi materiali per realizzarla erano molto diversi. Ripetiamolo: il partito veltroniano fu concepito e volle essere un partito senza organizzazione, senza sedi locali, “liquido”, allora si diceva, un partito di network, non un partito di persone, quindi di responsabili, di militanti, e ovviamente anche di regole e di organizzazione, di controllo e democrazia interna.
Il paradosso di questa conclamata democratizzazione come liquidazione dei partiti-organizzazione (i partiti vengono liquidati quando sono trasformati da solidi a liquidi) è la trasformazione da cittadini che nei partiti della cosiddetta Prima repubblica partecipavano in qualche modo alla costruzione del programma e alla designazione dei leader, a cittadini che sono meri votanti. Non essendoci più un partito, ma soltanto un’accozzaglia di opinioni e un leader visibile, cosa fa il cittadino? Diventa “audience”, usa il telecomando per decidere “sì o no” ovvero va semplicemente a votare per dire “sì” o “no” a questo o quel leader. Questo sono le primarie: il cittadino vota, vota, vota e basta. L’altra parte della democrazia, la partecipazione alla definizione dei programmi, alla critica dei dirigenti, alla formazione delle liste elettorali, alla stessa proposta dei candidati, viene completamente a mancare, non c’è più; o meglio è fatta dai funzionari dei partiti e dai tecnici della comunicazione che lavorano per i partiti.
E si badi bene: è in nome della democrazia e della legalità che tu togli la voce ai cittadini. Dai loro solo il potere dell’applauso o del fischio, trasformi i cittadini in un foro plebiscitario di memoria romana: arriva Antonio, arriva Cicerone sul podio ha di fronte un pubblico che si esprime così: “Buh, buh”, “sì, bravo”, “vai via”, “vogliamo te”. Così gli oratori capivano come organizzare il discorso, che cosa dire o non dire, come andare avanti con la loro azione politica. Era un popolo che rispondeva, che non proponeva, e questo è il popolo dell’audience. Nell’Italia berlusconiana, in nome della democrazia, si è trasformata la democrazia dei cittadini nella democrazia delle masse, di masse senza volti, di masse non individuate, senza individui, di gente che fa “buh” o urla: “Forza, evviva”, che applaude o fischia, il tutto con l’ovvia, e prevedibile, conseguenza che qualcuno dovrà dare espressione, forma, a questa massa informe. È proprio la politica come democrazia delle masse che genera per necessità una politica delle elite. E sarà una elite che sa giocare con la retorica o con i mezzi di informazione e comunicazione, i media. Tra plebiscito (e demagogia) e tecnocrazie corre buon sangue.
Quindi questa è la situazione in cui ci troviamo: verso l’élite si muovono sia i critici tradizionali della democrazia come luogo di perdizione e di corruzione, sia quei democratici che hanno accettato come ineluttabile o anche giusta la scomparsa dei partiti e non vedono più cittadini ma masse informi che attendono chi darà una forma, una guida. Così si fa largo al primo demagogo che abbia la forza di urlare contro e di stimolare gli applausi.
Ha accennato a una tradizione critica della democrazia molto antica…
Sì, c’è un’idea che ritorna ciclicamente: che la democrazia non vada d’accordo con forme di distinzione personali, con forme di ineguaglianza. A fine Ottocento, inizi Novecento, al governo rappresentativo e alla democrazia venne rivolta un’importante critica, in particolare da parte di Mosca, Michels e Pareto, fondata sulla considerazione che l’idea che votando si crea un governo del popolo per il popolo e con il popolo (lo slogan famoso di Abraham Lincoln) si scontra con il fatto che ogni forma organizzata di agire collettivo crea e presuppone una distanza tra l’alto e il basso. Anche se noi partiamo tutti uguali, quando dobbiamo arrivare a una decisione, perfino una decisione irrilevante come spostare un tavolo o una sedia, si presume che i molti “si scremino” e che attraverso il collo dell’imbuto della decisione passi solo la volontà di uno o di pochi. Perché poi i molti hanno altre cose fa fare e da pensare, non possono stare in perenne attività politica. Quindi è la divisione del lavoro stesso, che dal mondo economico si trasferisce al mondo politico, che ci impone di accettare l’idea che la democrazia sia una pura ideologia. È un’ideologia con la quale i pochi sono stati capaci di convincere i molti di essere i veri sovrani, diceva Pareto, ottenendo così, in sovrappiù, anche il risultato di farli obbedire con piacere e soddisfazione in quanto coloro ai quali essi obbediscono sono stati scelti da loro e da loro possono essere anche mandati a casa. L’idea che la democrazia generi elite e poi anche la loro circolazione, l’idea cioè di una democrazia padrona assoluta del campo sarebbe pura illusione. È vero il contrario: sono le elite che creano la massa di partecipanti e che inducono un voto o un silenzio. In realtà ci raccontano Mosca, Michels e soprattutto Pareto che è il più antidemocratico di tutti, questa è una ideologia incredibile, ma funzionale perché, rende la società apatica, subordinata e tranquilla essendo i cittadini convinti di obbedire a se stessi mentre, in realtà, obbediscono a nuovi padroni. Alla fine, gira e rigira, dai tempi del Vecchio Oligarca ateniese, fino a Michels e ai giorni d’oggi ci si vuol dire la stessa cosa, ovvero che la democrazia è solo un’ideologia per tenere domato e buono il popolo e che non esiste una politica basata sull’uguaglianza di potere, perché la politica vive di distinzione, vuole distinguere tra tu che sei capace e tu che non sei capace, tra tu che puoi fare il ministro e tu che non lo puoi fare, e sono distinzioni di tipo gerarchico perché fondate su qualità e conoscenze che non sono di tutti.
Quindi, come dice Sartori, eleggendo qualcuno noi riconosciamo pubblicamente di essere incapaci di decidere. L’elezione non è un’espressione di potere ma un’espressione di impotenza. In questa visione l’élite è il fenomeno costante mentre la democrazia non è altro che un sistema ideologico per tenere l’élite al governo. Gramsci chiamava questo sistema “egemonia”; aveva capito come le cose funzionavano secondo questo schema, anche se non pensava che tutte le egemonie si equivalessero né che i pochi potessero organizzare una democrazia anche se e quando usavano istituzioni democratiche.
Ma a questa critica come si risponde?
Tutti questi pensatori partono da un’idea di democrazia “ideale”, come dicono, e quindi, secondo loro, “ideologica”, per poi distruggerla dimostrando che fa acqua da tutte le parti. In realtà, proprio facendo questo, diventano loro i grand commis dell’ideologia, perché nel costruire la loro idea si rifanno a una visione della democrazia come assoluta uguaglianza, immediatezza della presenza del popolo uno nel sistema di decisione, cosa che non solo non è mai avvenuta, ma non è proprio ciò che la democrazia promette. E prendono come autore esemplificativo di questa visione della democrazia pura o perfetta, Rousseau, che sappiamo averci dato un’importante teoria della legittimità del governo, ma non una teoria democratica. E quindi continuano a riproporci una visione della democrazia che è astutamente funzionale alla loro critica e alla giustificazione della loro teoria delle élite.
Anche il Parlamento diventa oggetto di una critica radicale…
Infatti non viene messa in discussione soltanto la democrazia in generale, ma anche la forma che ha assunto nella modernità attraverso le elezioni di assemblee di rappresentanti. Un sistema rappresentativo in forma parlamentare che vede la costruzione di collettivi di rappresentanti i quali, eletti da noi, a noi devono tornare, che prendono decisioni che possono essere oggetto della nostra critica e molto spesso anche di abrogazioni tramite referendum; un sistema fondato su un processo di circolazione di opinioni tra noi e loro, tra dentro e fuori delle istituzioni. Bene, se noi andiamo a guardare alla storia della democrazia rappresentativa e parlamentare degli ultimi duecento anni, vediamo che in momenti di particolare crisi, crisi economica o di legittimità della classe dirigente politica per ragioni di corruzione, l’attacco alla democrazia parlamentare si è rinnovato puntuale. In occasione del primo dopoguerra e in occasione della prima crisi economica conosciuta come grande depressione dal ’29 al ’34 circa, noi abbiamo assistito in Europa alla distruzione delle democrazie parlamentari esistenti. Non c’era ancora il suffragio universale, ma c’era già l’alveo della democrazia perché quando tu introduci il suffragio, anche qualora lo limiti con l’argomento censitario, non puoi fermare la strada verso il suffragio universale. In sostanza, c’è solo bisogno di tempo, ma la struttura del discorso elettorale è già aperta all’universalità. Ebbene, in quegli anni, l’attacco dei grandi teorici e dei politici è stato rivolto alla democrazia nella sua forma parlamentare. Basti ricordare un autore come Carl Schmitt, che oggi sta conoscendo una rinnovata fortuna; egli fu il più grande critico e nemico della democrazia parlamentare e del sistema rappresentativo fondato sul suffragio individuale e il voto segreto. A suo parere la forma più legittima di democrazia era quella delle masse, quella che non passava attraverso il voto segreto, ma per plebiscito urlato, il voto pubblico. Era Sparta il suo modello. In questo modo venivano eliminati i “corpi intermedi”, ovvero i partiti. I partiti per lui non potevano che essere di tipo clientelare e notabilare, dediti a rastrellare voti per tenere insieme gli interessi dei ceti, fossero essi borghese o proletario; i partiti erano elitari, come avevano spiegato Michels e Pareto, e niente avevano a che vedere con la democrazia delle masse. Erano mezzi per portare in parlamento gli interessi di parte, e con essi la pratica maleodorante della mediazione e della transazione tra interessi.
Lo stesso Weber, prima di Schmitt, aveva mosso critiche fortissime a un parlamento formato dalla burocrazia dei partiti e divenuto luogo di scambio. Quindi c’erano buone ragioni per criticare: non c’era il suffragio universale innanzitutto, i partiti erano certamente partiti di notabili. Però lo sbocco di quelle critiche era radicalmente antidemocratico, direi anti liberal-democratico, con un’esaltazione della democrazia delle masse dove il leader, il führer, diventava necessario.
A questo si deve aggiungere che nei paesi come l’Italia, che hanno una fortissima tradizione cattolica e una debolissima tradizione liberale (e dove il liberalismo deve diventare per forza una forma ideologica contro un potere sovrastante che è per cultura anti-liberale perché corporativo), queste idee marciano molto bene; sono una teologia politica che porta tutto il retaggio cattolico all’interno del mondo politico: il papa, il führer, la struttura gerarchica, la chiesa e un popolo che è sempre una massa di fedeli indistinta.
Il buon pastore…
Il buon pastore. Infatti il linguaggio usato nei lavori di Carl Schmitt è mutuato dalla teologia cattolica, anti-protestante e anti-liberale. Come la chiesa cattolica è la custode della dottrina cristiana, e il papa è il rappresentante visibile del mistero della verità di fede, così è nella rappresentanza politica, che deve quindi rappresentare il volere del popolo, non gli interessi e le idee dei cittadini. C’è questa trasmigrazione della struttura gerarchica non liberale dentro la politica rappresentativa per rispondere al liberalismo imperante, fatto di individualismo, di società civile pluralistica e cacofonica, piena di interessi che si scontrano e che magari vogliono costruire partiti che servano appunto a convogliare questi vari interessi, ecc. ecc.
Dopo aver parlato di Schmitt parliamo di Grillo…
Ma Grillo è l’esempio chiaro di ciò che stiamo dicendo, è la conclusione di questa parabola di distruzione dei partiti e con essa della trasformazione del cittadino da partecipante a audience. Grillo nega di essere un capo partito, ma dice di essere un megafono; lui porta la voce di tutti, è il portavoce di una massa di persone, come se la massa non avesse diverse idee, come se non fosse composta di una pluralità di voci, interessi, persone. La politica come megafono è l’incoronamento del plebiscitarismo dell’audience. Il Movimento 5 Stelle rifiuta l’organizzazione, ha soltanto la rete, e la rete come sappiamo non ha organizzazione articolata per incarichi e responsabilità, è volontaria e orizzontale; vi si entra e si esce in ogni momento, e soprattutto non ha piramide, ha soltanto gente che da dentro casa propria (nello spazio privato per eccellenza) sta a parlare e chiacchierare, e che soprattutto è strutturata secondo identità: non si entra nei siti di coloro con i quali si dissente. I siti sono “nicchie” identitarie. Questo è il partito solo rete: la santificazione del partito liquido.
È un mondo orizzontale, un reticolato di persone che stanno in orizzontale e rifiutano il verticale, il quale c’è, ma solo in quanto megafono. Grillo rappresenta la trasformazione che una democrazia può subire quando non ci sono più i partiti: da democrazia di cittadini organizzati secondo la loro opinione a una democrazia della massa disorganizzata che si identifica ed è fondata da gente identificata nel megafono. Gente invece di popolo, massa invece di cittadini diversi. Lo stesso partito non partito, lo stesso partito-dis-organizzazione (che è questo movimento chiamato cinque stelle) sconterà prima o poi il paradosso della sua esistenza e della sua identità perché nel momento in cui produrrà eletti che entreranno nelle istituzioni dello stato questi o si faranno partito essi stessi o staranno lì per se stessi individualmente, fuori da ogni controllo, senza dover rispondere a nessuno. E sarà un problema enorme per la democrazia.
L’organizzazione, il partito, ha una funzione non soltanto di formazione di una classe dirigente, ma anche di controllo sugli eletti. Ecco perché è una grandissima istituzione democratica. Sono i partiti, l’equivalente dei corpi intermedi di cui parlava Montesquieu, che svolgono una funzione di limitazione, controllo e sorveglianza del potere. Ma se questi strumenti di controllo vengono meno? L’elezione da sola non controlla il potere, lo limita soltanto nel tempo, perché si va a votare ogni quattro, cinque anni, ma nel frattempo non ci sarà alcun sistema di controllo degli eletti, che quindi risponderanno solo a se stessi, poiché, come sappiamo, non abbiamo un sistema di mandato imperativo.
Per concludere, e ne abbiamo già parlato in un’altra intervista, vedere la democrazia come qualcosa di puro è sbagliato e forse anche pericoloso. Tu hai detto che la democrazia è cacofonica anche, se ho capito, a proposito di uguaglianza…
Intanto la democrazia è umile, diciamo così. Poi non è vero che la democrazia è orizzontale e piatta. Ecco il discorso dell’uguaglianza: la democrazia ha una visione e una pratica della uguaglianza che non vuol dire abbassare tutti di livello ma consentire che gli individui si esprimano al meglio e quindi alzare tutti possibilmente alle loro massime possibilità. Questa è la grande idea che ci viene sia dal passato antico che dagli Stati Uniti, dove è stata sviluppata per la prima volta la democrazia dei moderni, e che fece restare attonito Tocqueville, il quale vedeva come lì si tenevano insieme due cose che gli europei consideravano impossibili da conciliare: uguaglianza e individuo, uguaglianza e libertà. Da noi, per la nostra visione giacobina, uguaglianza vuol dire orizzontalismo e non un sistema che consente a tutti di partecipare alle gare per emergere e essere protagonisti.
L’uguaglianza democratica invece è una condizione di opportunità e sviluppo delle capacità che agli individui deve essere data per esprimere se stessi nel modo che loro ritengono migliore; e che può essere per il meglio, ma può essere anche per non fare niente. Non è obbligatorio essere tutti Einstein, né questo è il fine dell’eguaglianza democratica, la quale è radicalmente anti-perfezionistica, non dicendoci a cosa dobbiamo mirare. Ci dice invece: “Ciascuno si forma le proprie idee e deve essere libero di seguire la propria vocazione; insieme noi ci diamo la possibilità di mettere in atto questo progetto, con un unico limite che è quello di non far del male agli altri; ci si può certo impegnare a convincere gli altri affinché vivano così o cosà (ciò significa essere liberi di esprimerci), ma senza usare la forza, ovvero le istituzioni dello stato, per imporre una via o l’altra, e senza opprimere nessuno. La democrazia moderna si è limitata accettando i diritti e ponendo quindi dei limiti a tutte le maggioranze elette”. Questo è l’unico limite che poniamo dopodiché la democrazia deve preoccuparsi che a tutti sia garantita la possibilità di esprimere al meglio se stessi.
Ecco, per questo la democrazia si cura di una cosa in particolare: di neutralizzare la fortuna, il fatto che tu nasci in una famiglia rispetto a un’altra, e di neutralizzare la cultura, che sono due ragioni di ineguaglianza fortissime. Infatti l’opposto della democrazia non è il governo di uno, ma il governo dei migliori, i migliori perché aristocratici o perché provenienti da una famiglia, da un ceto culturale o sociale determinato, e che possono essere anche migliori, certo. Voglio dire: se tu vieni da una famiglia che possiede una biblioteca di 4000 volumi e nasci con l’odore dei libri nell’aria, avrai molte possibilità di diventare un ottimo intellettuale, certo più di me nella cui famiglia c’erano solo quattro libri, il Vangelo, la vita dei santi e qualche cos’altro.
Quindi la democrazia cosa vuole fare? Vuol far sì – ecco la grande utopia, la grande scommessa – che anche coloro che vengono da un famiglia in cui ci sono cinque volumi al massimo di cose legate alla salvezza dell’anima e nemmeno alla vita civile, abbiano l’opportunità di provare chi sono individualmente, poiché noi non nasciamo con la matrice dei nostri genitori. Siamo unici e, vivaddio, dobbiamo avere la possibilità di sapere che cosa possiamo fare, di che cosa siamo capaci: noi, come persone.
Quindi la democrazia, quando parla di eguaglianza, parla di eguaglianza di opportunità e di condizioni di base.
Detto questo, la democrazia non promette alcuna uguaglianza economica, non dice che renderà tutti uguali in proprietà, in capitale, ma fa sì che le disuguaglianze di tipo economico non diventino ragioni per essere ineguali nel potere di prendere le decisioni alle quale dobbiamo ubbidire. La democrazia deve essere una diga che ferma la disuguaglianza economica, impedendo che questa tracimi nel politico. Questa è la cosa più complicata da fare, perché vuol dire stabilire norme e regole tali per cui chi ha poco e chi ha molto abbiano lo stesso valore morale e politico (lo stesso voto).
La terza cosa che promette la democrazia, ed è la più importante, è che le decisioni vengono prese contando i voti uno per uno, e non in gruppo; non si contano i voti della Confindustria, né i voti degli operai, si contano i voti di un individuo cittadino come “uno”, voti che poi vengono sommati cosicché la maggioranza per un periodo determinato, stabilito, governerà.
Questo principio è importante perché presume che nessuno abbia una competenza talmente superiore da poter decidere senza votare, senza contare i voti, senza una maggioranza. In realtà la regola della maggioranza è l’unico metodo che consente di far emergere qualcosa di buono, perché quando sono tutti messi nel bacino delle possibilità ci sono più probabilità che vengano fuori grandi persone. Più restringi le condizioni di selezione più, in realtà, impoverisci il tutto.
È la chimica della biodiversità…
… che vuole la diversità e non l’identità o la similitudine delle competenze. Diversità di valori, diversità di punti di vista, diversità anche di formazione perché se tu hai una formazione tecnica e io umanistica, sai quante cose posso imparare da te e tu da me? Quindi le diversità non sono ragioni di disuguaglianza ma sono ragioni di ricchezza per tutti. Qui non c’è massa, ma uguaglianza democratica; l’uguaglianza per esprimere al meglio le individualità.
La democrazia ha una visione aristocratica? Certo che ce l’ha, ma la chiamiamo come fecero i padri fondatori americani, “aristocrazia naturale”, perché diamo a tutti l’opportunità di emergere. Non è un’uguaglianza per appiattire, per atterrare tutti come temeva e pensava Nietzsche quando inveiva contro la modernità che aveva dato ai peggiori (che sono la maggioranza) l’argomento per conquistare il potere contro i pochi e migliori: rendendoli tutti identici ai peggiori.
Che cosa promette la democrazia? La democrazia promette una cosa sola, la libertà. Ma questo non è accettato da quei democratici che pensano che l’eguaglianza sia identica a identità e non a opportunità; da quei democratici che considerano la politica una questione di masse e leader e non di pluralità di movimenti e di cittadini, che insomma pensano che la democrazia ci debba dare non già la libertà ma l’uguaglianza. No, l’uguaglianza è una condizione per vivere liberi; l’uguaglianza nella condivisione del potere politico è la condizione perché nessuno sia subordinato all’altro.
La democrazia produce idee, produce opinioni, e come fai a produrre opinioni se non sei libero di esprimerle, come fai a produrre più partiti se non c’è libertà di opinione, di espressione e di associazione? Quindi la libertà è l’ossigeno della democrazia e l’uguaglianza è la sua condizione. Tu butti ossigeno in una situazione in cui le persone sono trattate come uguali dalla legge, hanno ugual voto e il loro voto conta uno. Dopodiché ci sono tutte le differenze e qualche volta anche molto forti, ma non importa, perché a quella condizione la differenza è vita.
In conclusione cosa promette la democrazia? Non promette né competenza, né un governo buono. Può mandar su un pessimo governo, che prende decisioni pessime, però consente ai cittadini di cambiarle sempre.
Tutto è reversibile in democrazia, quel che viene fatto è temporaneo (anche le buone decisioni!); la democrazia non fa danni irreparabili per questa ragione. Un po’ poco si potrebbe dire. Certo, se chiamiamo poco riuscire a non far fare danni irreparabili…
*Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University di New York. Collabora a varie riviste di teoria e filosofia politica.