SEUL – La saga di Fabbrica Italia si avvia verso il suo prevedibile epilogo e i protagonisti di questa triste vicenda si preparano ovviamente ad addossarsi a vicenda le responsabilità per la riduzione della capacità produttiva italiana della Fiat, la crisi dell’indotto che ne deriverà e magari pure l’agonia dell’industria automobilistica italiana. Peraltro il vero colpevole, per così dire, ci sarebbe pure. È la Hyundai, le cui macchine sembrano esattamente quelle che i consumatori europei avrebbero una volta acquistato dalla marca torinese, se questa fosse stata capace di aggiornare la propria offerta e migliorare la qualità. E lo fa grazie a investimenti aggressivi, marketing azzeccato e management preparato per il mestiere automotive. Intanto la Fiat e i costruttori francesi protestano per la presunta chiusura del mercato coreano, dove silenziosamente le case automobilistiche tedesche si sono invece ritagliate uno spazio confortevole.
Era la fine del XX secolo e la Fiat vendeva quasi un milione e mezzo di vetture in Europa. Un costruttore coreano alle prime armi, la Hyundai, si affacciava timidamente sul mercato continentale, con appena 200 mila vendite. E intanto la casa madre si dibatteva per rimanere a galla e non fare la fine ingloriosa del principale rivale, la Daewoo, che dopo aver cercato di entrare aggressivamente in Europa con stabilimenti in Polonia e Repubblica ceca era stata inglobata dalla GM dopo la grande crisi asiatica del 1997.
A prezzo di una ristrutturazione finanziaria profonda e della separazione della società automobilistica dalle tantissime altre attività del chaebol omonimo (tra cui l’ingegneria civile, la cantieristica, il trasporto ferroviario in cui è adesso leader mondiale), la Hyundai si è ripresa eccome. Nella prima metà del 2012 ha venduto 428.529 vetture in Europa (anche con il marchio Kia), contro 552.920 per la casa torinese. Il grafico è impietoso: le vendite cumulate dei due produttori sono più o meno rimaste stabili in questi 12 anni, soltanto che a questo passo è possibile che l’anno prossimo in Europa si vendano più Hyundai che Fiat.
Chung Ju Yung arrivò a Seoul negli anni 30, lavorando come fattorino prima di comprare una piccola officina di riparazioni nel 1940. Coltivando le relazioni con gli americani e il presidente Syngman Rhee, la Hyundai si fece pian piano strada nel settore della costruzione. Si guadagnò i favori del nuovo capo di governo, Park Chung-hee, negli anni 60 quando completò prima del previsto la costruzione di uno dei primi ponti sul fiume Han a Seoul. Vennero allora i contratti per costruire l’autostrada Pattani-Narathiwat in Tailandia, la Seoul-Busan e installazioni per l’esercito americano in Vietnam.
Chung e Park svilupparono rapporti particolarmente stretti e quando il regime decise di creare l’industria cantieristica la scelta cadde sulla Hyundai. All’inizio degli anni 70, non soltanto la Hyundai non aveva nessuna esperienza nella costruzione di navi, ma nessuno in Corea ne aveva mai progettate di più grandi di 10 mila tonnellate, mentre l’obiettivo erano petroliere da 260 mila tonnellate. Dopo innumerevoli vicissitudini che sono ampiamente descritte nell’agiografia aziendale, e a dispetto dello scetticismo in patria e all’estero, Chung trovò il finanziamento (60 milioni di dollari) per costruire due navi, copie (legittime) di modelli britannici, per armatori greci. Quando la crisi petrolifera del 1973 costrinse i clienti a cancellare l’ordine, la Hyundai fece appello al governo coreano. Senza il soccorso di questo, l’avventura cantieristica sarebbe finita ancora prima di cominciare seriamente.
In quegli stessi anni la Hyundai divenne più ambiziosa nel settore delle costruzioni civili all’estero. Dopo essersi sbarazzato del fratello minore, Chung In Yung, che gli consigliava maggior prudenza, Chung cominciò a inanellare i contratti per grandi opere in Medio Oriente, soprattutto impianti petrochimici, ma anche porti, strade e altre infrastrutture. Questi generarono i cash flows che si dimostrarono presto utili per attaccare i produttori giapponesi di autoveicoli, ma anche di semiconduttori. La prima macchina, la Pony, vide la luce nel 1975: la disegnò Giorgio Giugiaro ed era basata sulla tecnologia Mitsubishi. Fu necessario aspettare il 1991 perché la Hyundai fosse capace di produrre motore e trasmissione propri.
La crisi finanziaria del 1997 rese però drammatica la situazione del chaebol. Nelle migliori tradizioni del capitalismo famigliare, gli eredi si misero a litigare: su chi avrebbe preso le redini del gruppo, ma anche su quali attività privilegiare. Separazione tra le diverse società manifatturiere, anche su pressione del governo che questa volta non aveva intenzione di arrivare alla riscossa e voleva evitare che le attività auto facessero la fine della Daewoo. Ed emergere di Chung Mong Koo nel ruolo di capo clan, capace prima di convincere la DaimlerChrysler ad acquistare una partecipazione del 9%, poi di riprendere in mano completamente la società alla luce dei risultati modesti dell’alleanza.
La strada da fare era però ancora lunga. Nel 1998 le Hyundai ricevevano il peggior punteggio nella valutazioni degli esperti di J.D. Power & Associates. Ma in pochi anni la situzione migliorò: Chung aveva promesso una garanzia decennale e quindi il costo di produrre vetture difettose era grande, bisognava ridurre velocemente i difetti. Macchine migliori e quindi anche prezzi più elevati: rispetto alla Toyota equivalente, una Hyundai era del 30% più conveniente a fine anni 90, del 15% nel 2002, del 10% nel 2005, finché nel 2008 il prezzo di listino di una Accent era 600 dollari più alto che per la Toyota Yaris.
Per Chung, aver portato la società al quinto posto al mondo non ha esaurito le ambizioni. La Hyundai prevede di vendere sette milioni di autovetture – 4,29 milioni con il marchio eponimo e 2,71 con quello Kia – quest’anno. Il problema è che negli Stati Uniti le marche giapponesi (soprattutto Toyota, Nissan e Honda) sono molto aggressive in questo momento, per recuperare il terreno perso l’anno scorso a causa del terremoto. Da ciò la decisione ad agosto di una visita-sorpresa alla filiale di oltreoceano (Pacifico) per mettere in riga dirigenti e dipendenti. Aumentare la produzione (+34% in Georgia rispetto all’anno scorso) non è sufficiente. La qualità è fondamentale, mai più deve accadere, come a luglio, che debbano essere richiamate 200 mila vetture per ricalibrare l’airbag. Anche se le vendite nei primi sei mesi dell’anno sono cresciute del 9,5%, dopo il fantastico +20% fatto registrare nel 2010.
Per capire come ha fatto la Hyundai ad inanellare tanti successi, la prima cosa è sbarazzarsi delle spiegazioni più semplicistiche. Quella più in voga, come spesso del resto quando si parla di Asia, è che sia dovuto allo sfruttamento della manodopera.
A dir la verità, in Corea i sindacati scioperano per andare in pensione più tardi. Quest’estate i metalmeccanici hanno deciso, a schiacciante maggioranza (78%), di incrociare le braccia per la prima volta dal 2008. Alla Hyundai di Ulsan – la maggior fabbrica al mondo, ancor più grande della Fiat di Betim, in Brasile – la Korean Metal Workers’ Union (KMWU) ha 44,857 membri (di cui 40,979 hanno partecipato al voto). Oltre che quella di portare da 58 a 60 anni l’età pensionabile, la KMWU ha presentato altre richieste al management: aumento salariale dell’8,4%, partecipazione al risultato d’esercizio pari al 30% dei profitti, riduzione dei due turni diurni (da 10 ore ciascuno, con il secondo che termina nel cuore della notte) a uno di otto e uno di nove che finisce a mezzanotte e conversione dei contratti atipici. Le trattative sono iniziate il 10 maggio e il sindacato le ha abbandonate il 27 giugno dopo nove incontri. La casa automobilistica ha infatti osservato che a parte l’aumento salariale tutte le altre richieste esulavano dall’ambito contrattuale.
Mentre le parti tornavano a riunirsi, arrivando a 21 incontri in due mesi, è stato battuto il record d’interruzioni della catena produttiva stabilito in occasione degli scioperi del 2006. Gli scioperi sono costati alla Hyundai 1,54 trilioni di won (€1,1 miliardi), o 74.618 veicoli non prodotti. Tutto il settore automotive (330 fornitori di primo livello solo per la Hyundai e 5 mila fornitori minori) ne ha sofferto – 1,32 trilioni di won di mancate vendite. In Corea, del resto, le relazioni industriali sono spesso state abbastanza agitate – per esempio nel 2011 3 mila poliziotti intervennero per mettere fine ad uno sciopero di 500 operai nella fabbrica di un fornitore della Hyundai. E alla Samsung non esiste neppure la libertà sindacale.
A fine agosto, il lieto fine. Al posto della marcia dei 40 mila, come a Torino nel 1980, a Ulsan, sono stati i gruppi della società civile a spezzare le reni … di sindacato e società. A un certo punto il Citizen Council for Happy City Ulsan ha intimato alle parti di trovare un accordo per salvare e piccole e medie imprese e questo è stato apparentemente decisivo per trovare l’accordo. Aumento salariale del 5,4% (98,000 won o $87), abolizione dei turni di notte a partire da marzo 2013 e impegno della società ad investire 300 miliardi di won per mantenere la produzione malgrado le minori ore lavorate. E consenso ad avviare discussioni per regolarizzare i contratti dei dipendenti dei subfornitori della Hyundai che lavorano all’interno degli stabilimenti.
La decisione di abolire il turno notturno è particolarmente significativa. Perché è una pratica che la Hyundai ha applicato costantemente fin dalla sua fondazione. Perché in Occidente i sindacati hanno sempre contestato al management il ricatto di chiedere ai lavoratori di adottare le stesse condizioni di lavoro di paesi in cui gli operai sarebbero sfruttati, pronti a tutto pur di guadagnare abbastanza per riempirsi la pancia. E perché, paradosso che come pochi rivela le trasformazioni velocissime del mondo in cui viviamo, la casa coreana si guarda bene dall’abolire il turno notturno nei suoi stabilimenti americani.
La seconda spiegazione è che la Hyundai ha usato l’accordo di libero scambio tra Corea e Unione Europea, in vigore da metà 2011, come grimaldello per invadere il mercato europeo. È ciò che sostiene l’ACEA, l’associazione delle case automobilistiche europee presieduta proprio da Sergio Marchionne, e del resto proprio l’Italia aveva cercato fino all’ultimo di ritardarne la firma, nel timore che i marchi coreani avrebbero guadagnato quote di mercato a scapito della Fiat. Adesso anche i francesi cercano di fare la voce grossa: il ministro dell’Industria Arnaud Montebourg ha accusato Hyundai-Kia di fare dumping per conquistare il mercato francese.
Il problema è che una parte modesta delle vetture Hyundai-Kia viene dalla Corea, dato che il grosso è prodotto in Europa centrale. Soprattutto, in un mercato domestico in contrazione (986.908 vetture vendute da gennaio ad agosto, – 6,1%), le importazioni sono aumentate del 20%. Delle 83.583 vetture straniere vendute, la stragrande maggioranza sono – nell’ordine – BMW, Volkswagen, Mercedes-Benz, Audi e Mini. In altre parole marche europee, tedesche per maggior precisione, che evidentemente producono proprio ciò che i coreani vogliono acquistare.
La terza tesi da smitizzare è che la Hyundai sia a proprio agio più nei mercati emergenti che nei paesi industrializzati, ancora troppo complicati per un’impresa coreana. In realtà, la Hyundai ha aspettato prima di attaccare i BRIC. Ma quando si è decisa, lo ha fatto alla grande, prima in Cina, poi in India e da qualche anno in Russia. Invece che cercare di vedere modelli vecchi, magari neppure più in produzione in Corea, ne ha sviluppati di nuovi, adattati alle strade di questi paesi e le abitudini dei nuovi consumatori, ma senza necessariamente lesinare sui comfort e sui gadget. Risultato, quote di mercato che vanno da 19% in Russia (subito dietro alla GM) e 15% in India (seconda, ma distante dalla Suzuki), a 5% in Cina (dove sono Hyundai tutti i taxi di Pechino) e un modesto 1,6% in Brasile. Dove la Fiat domina ancora, con 23,3% nei primi otto mesi, tallonata da Volkswagen al 22,8. Ma, come se Marchionne non avesse già abbastanza preoccupazioni, la settimana scorsa dalla linea di montaggio di Piracicaba è uscito il primo esemplare della HB20, una due volumi (segmento B) concepita per il mercato latinoamericano. Dove HB sta appunto per Hyundai Brasil.
Dove sta allora il segreto? Non per forza nella spesa in R&S, cui la Hyundai ha destinato 1,587 miliardi di euro nel 2010 (+8,4% rispetto all’anno precedente). Non è tanto – la Fiat ne ha investiti 1936 (+14,4%), il 3,4% del fatturato, mentre per la casa coreana è solo il 2,1%. Piuttosto nell’aver continuato a destinare risorse allo sviluppo di nuovi modelli e all’ammodernamento della capacità produttiva anche nelle fasi meno favorevoli del ciclo economico, in modo da farsi trovare preparata una volta ritrovata la crescita. Sintomatico il fatto che la fabbrica ceca, inaugurata a fine 2008 per produrre 150 mila auto, sia già stata raddoppiata. Un’altra caratteristica, avere scommesso nel design, con tre centri globali a Namyang, Irvine e Francoforte che hanno permesso alla Hyundai di aggiudicarsi vari riconoscimenti internazionali. E anche se nessuna macchina coreana ha ancora vinto l’ambito titolo di European Car of the Year, sono quattro i nuovi modelli che possono concorrere quest’anno (e solo due quelli italiani).
Come la maggior parte delle storie che vengono da Oriente, neanche questa ha una morale. Lavorare duro, progettare l’avvenire, discutere aspramente e magari pure litigare – cose che sono successe e che succedono ovunque e che poco hanno a che vedere col confucianesimo e la genetica. Ma è interessante tenerla presente la prossima volta che si parlerà di crisi dell’auto. Mostra che in Asia le società non martirizzano gli operai e i sindacati sono tutt’altro che docili, ma anche che altrove i dirigenti non brandiscono costantemente la minaccia della delocalizzazione come una clava. Tranne farsi poi sorprendere nudi come qualsiasi re, senza neanche il conforto di un golfino.