I social media sono democrazia diretta o dittatura?

I social media sono democrazia diretta o dittatura?

Perché preoccuparsi di vincere le elezioni e avere voti in Parlamento, quando sui social-media si può sapere cosa vogliono le persone in tempo reale, 24 ore al giorno?

Nessuno suggerisce veramente di affidare le chiavi di Downing Street agli utenti di Facebook. O di rimpiazzare il primo ministro con una comunicazione di Twitter, quantunque ad alcuni possa sembrare allettante. Ma la cosa strana, e leggermente spaventosa, è che dopo anni di previsioni ultra-ottimistiche sulla democrazia virtuale, adesso il social-media è liberamente utilizzabile ed è diffuso tanto che potrebbe anche funzionare. In teoria.

«Tecnologicamente parlando è possibile. Potremmo farlo funzionare come una democrazia diretta» ha detto il deputato laburista Kevin Brennan, all’incontro della Hansard Society a Westminster. «Il costo pagato per ottenere le opinioni delle persone su materie diverse è minimo se paragonato ad altre epoche della storia, a meno che non si torni all’antica Grecia, quando bastava radunarsi alla piazza del mercato per avere un voto diretto sulle decisioni». Il ministro ombra dell’istruzione ha aggiunto, però, che sarebbe un’idea davvero terribile.

Westminster è pronta per una rivoluzione dei social media? «Alla fine qualcuno dovrebbe prendere una decisione. Quanto potrebbe essere rassicurante che si prendano decisioni su punizioni capitali in un dibattito Tv o con un voto su Twitter?». «Abbiamo la democrazia indiretta per una ragione. Quand’è che la consultazione della folla diventa legge della massa?».

Come spiega poi, l’intera questione della democrazia rappresentativa, di quella praticata per secoli a Westminster e in molte democrazie occidentali, è che agisce da freno sulle «decisioni selvagge e irrazionali».

La folla irrazionale

Ma i social media potrebbero essere sfruttati dai politici in modo più modesto, ad esempio per prendere decisioni politiche migliori? Gli esperti, riuniti dalla Hansard Society in una sala conferenza senza finestre di un angolo oscuro dell’edificio parlamentare, erano divisi su questo punto.

Il responsabile voto di Britain Thinks, Deborah Mattinson, pensava che i politici dovessero avvantaggiarsi dal vasto oceano delle chiacchiere indistinte che si riversa su Twitter, Facebook, Linkedin e altri. Potrebbe fungere da buona misura per quel che gli elettori pensano delle loro decisioni (il gruppo è d’accordo nel considerare il social media come un misuratore efficiente delle emozioni). Almeno fino a quando non cominceranno a confonderli con l’opinione pubblica. «Il social-media non è un gruppo di studio gigante e non dovrebbe essere confuso con quello» ha detto la Mattinson all’evento «Non dovremmo pensare che siano la stessa cosa».

Gli utenti dei social-media sono interamente auto-selezionati e nonostante questo ce ne sono milioni, sparsi tra diverse fasce di età e reddito. Potrebbero far finta di essere altre persone o non esprimere la loro vera opinione. Hanno anche l’abitudine di comportarsi come una folla irrazionale, «zittendo qualunque dibattito in modo alquanto aggressivo» ha detto l’ex-responsabile elettorale di Gordon Brown, e molti di loro comunicano solo in gruppi chiusi formati da persone che la pensano in modo simile.

Poi c’è la questione del come selezionare le assurde banalità della maggior parte dei tweet (gli esperti si trovavano d’accordo nel considerare i deputati come alcuni dei peggiori colpevoli su questo punto).

La risposta potrebbe essere un software, WeGov, che è stato sviluppato da esperti informatici dell’Università di Southampton, con l’aiuto della Hansard Society e dei fondi Ue.

Le preoccupazioni per la privacy

Ci sono dozzine di programmi sul mercato di “analisi delle opinioni”, i quali permettono alle compagnie di monitorare quel che la gente, sui social-media, dice dei loro prodotti.

Ma WeGov, che è lo stadio finale dello sviluppo, si vanta di essere il primo programma disegnato specificatamente per i politici, non permettendo loro di monitorare il dibattito, filtrando il “rumore” di sottofondo e focalizzandosi sul quel che la gente di un’area geografica specifica dice su di loro e sulle loro politiche.

Durante l’evento Paul Walland, uno degli scienziati informatici dietro il programma, ha detto che i politici non saranno mai più in grado di entrare nelle conversazioni per difendere le loro scelte o porre domande. Ma nonostante Walland insista sul fatto che WeGov controlla solamente fonti di natura pubblica, rimangono seri timori per la privacy.

«Penso che la gente abbia la sensazione di qualcosa di raccapricciante» ha detto Kevin Brennan, «quando capisce che le conversazioni sono prese, analizzate e, infine, catalogate perché i politici le usino per fare le proprie scelte politiche».

Forse, come suggeriscono Deborah Mattinson e Nick Pickles, del Big Brother Watch, i politici dovrebbero chiedere il permesso prima di ascoltare le conversazioni online delle persone.

Ci sono quindi, a parte annunci e congetture, esempi di social-media davvero usati per modellare le politiche dei governi?

Esperimenti coraggiosi

Dopo essere stata formata, la coalizione di governo ha lanciato una serie di esperimenti audaci per leggi di provenienza popolare e per aprire i dati del governo allo scrutinio pubblico. Ha cambiato la forma al progetto della petizione-online dei Labour, innescando il dibattito in Parlamento.

Quanto tutto questo sia stato filtrato dalle politiche effettive è difficile da dire. I critici direbbero davvero poco. Ma Nick Jones, direttore aggiunto delle comunicazioni digitali di Downing Street, insiste perché la rivoluzione resti in carreggiata. Quando gli si chiede un esempio, lui parla del Red Tape Challenge, che, da quando l’anno scorso era stato lanciato dal primo ministro, ha ricevuto più di 28.000 commenti e presenta un «elemento di social-media».

Più di 150 bozze legislative considerate inutili dal pubblico sono state stracciate. Non ce n’era una sola importante, ha detto Jones, ma forse ha dato un segno che i social-media potrebbero prendere il loro posto nel tessuto governativo di ogni giorno.
 

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