CERNOBBIO (COMO) – Mauro Ferrari è un uomo alto ed elegante. Si aggira nel cortile di villa d’Este a Cernobbio, dopo il dibattito con nomi come Tim Berners-Lee, creatore del World Wide Web, e il governatore del Texas Rick Perry, dispensando sorrisi a tutti. Di lui dicono che sia «il padre della nanomedicina». Uno che con le sue scoperte potrebbe sconfiggere il cancro, rendendolo «curabile». Come le altre malattie. Udinese di nascita, laurea in matematica e dottorato in ingegneria meccanica, 29 anni fa Ferrari è partito dall’Italia alla volta degli Stati Uniti «per fare quello che nel mio Paese non potrei fare». Perché? «Perché ha enormi problemi di ricerca e innovazione», risponde.
Dottor Ferrari, il dibattito che lei ha presieduto qui a Cernobbio si intitolava “Innovazione, ricerca e sviluppo come motori per la crescita”. L’Italia può contare su questi motori per ripartire?
L’Italia ha enormi problemi di ricerca e innovazione, che non sono problemucci così. Ma problemi quasi mortali per un Paese. Questo non perché l’output umano da parte dell’Italia sia povero. La statura economica del nostro Paese è di prima scelta. E in termini di creatività l’Italia è senza pari. Ma come output nazionale siamo bravini. Ricerca e innovazione non sono un lusso, ma la condizione necessaria per un Paese. Senza investimento nella ricerca, gli altri ci fanno pelo e contropelo. Così un Paese che potenzialmente potrebbe essere di serie A cade invece in serie C. Nella ricerca e nell’innovazione non ci si può arrangiare come siamo abituati a fare.
Cosa c’è alla base di questa carenza di attenzione verso la ricerca? Un problema politico?
Sì, è un problema politico. Ma cos’è la politica? La politica siamo noi. Se siamo disposti a scendere in piazza contro la tessera del tifoso per andare liberamente a guardare la partita di calcio, perché non dobbiamo farlo anche per la ricerca? Si scende in piazza per alcuni motivi, per altri no. Manca la partecipazione.
È per questo che all’età di trent’anni è partito per gli States?
Sono in America da 29 anni. In Italia non avrei potuto fare quello che ho fatto finora. Sono stato prima 15 anni a Berkeley, sei anni in Ohio e due anni a lavorare per il governo federale a Washington e ora da sette anni sono in Texas. Dove ricopro il ruolo di presidente e amministratore delegato del “Methodist Hospitalll Research Institute”. Il Texas è uno Stato di 25 milioni di persone, tre volte dell’Italia per estensione, e vanta il primato di essere lo Stato con più investimenti in ricerca per densità di popolazione. Solo nella ricerca sul cancro sono stati investiti 3 miliardi di dollari. E al “Methodist” ora mi trovo a coordinare uno staff di 1200 persone. Con la nostra ricerca abbiamo creato tra i 2 mila e i 3 mila posti di lavoro, raccogliendo 120 milioni di fondi. In America l’accademico non è uno che pensa cose sofisticate, poi va nei salotti e dice: “Guarda che grande figata ho pensato”. Io sono un imprenditore della ricerca, mi occupo della raccolta fondi e mi danno determinati strumenti perché faccio qualcosa.
Che differenza rispetto alle università italiane…
Se io faccio buchi economici, mi cacciano a calci. Del precariato non me ne frega niente. La ricerca è una questione di risorse e di strumenti, non di garanzie sul mio posto di lavoro. Più volte negli Stati Uniti ho rifiutato i contratti cosiddetti “garantiti”. Perché devo dare garanzie di impiego a professori che insegnano tre ore a settimana e non pubblicano su una rivista da dieci anni? Così, in Italia, tagliano le gambe ai più giovani. Io sono un servitore della ricerca al servizio della comunità. E se non funziono, perché devo restare lo stesso al mio posto?
Lei è partito 29 anni fa da Udine. Come è cambiata l’Italia guardandola dagli States?
È cambiata in peggio. In Texas faccio cose che in Italia non potrei fare. Certo, vengo spesso qui. Ma non voglio vedermi appioppata l’etichetta di cervello in fuga. Piuttosto preferisco “fegato all’arrembaggio”. Perché, come si dice nella mia terra d’origine, il Friuli, “siamo liberi di dovercene andare”. Vengo da una regione che trent’anni fa non ci offriva nulla, eppure con tutta la mia volontà sono riuscito a fare quello che volevo.
Fino ad avere trenta brevetti con il suo nome. Ma che cos’è la nanomedicina di cui lei è considerato il padre?
È l’applicazione delle nanotecnologie alla medicina. Tre atomi costituiscono un nanometro. La nanotecnologia è una sorta di enorme struttura, come i lego, costruita di materia a livello atomico e molecolare. Questa tecnologia, applicata ai farmaci, diventa uno strumento di maggiore efficacia per entrare nel corpo umano, curare malattie o rigenerare parti del corpo stesso.
Come si può applicare la nanomedicina alla ricerca sul cancro?
La prima nanomedicina anticancro è stata creata venti anni fa. Noi stiamo lavorando sui farmaci di nuova generazione in grado di trasportare direttamente il farmaco ed essere attivate dall’esterno contro la massa tumorale. Ma in Italia l’Agenzia del farmaco ci ha ostacolato tantissimo per la diffusione di queste medicine. Così per un farmaco che negli Stati Uniti la Food and Drug Administration ha approvato nel 2005, in Italia ci sono voluti sei anni prima di poterlo diffondere. Nel frattempo sono morte 2 mila persone che sarebbero ancora vive se l’Agenzia del farmaco avesse approvato prima questa medicina. Negli Stati Uniti il 10% delle medicine anticancro sono nanomedicine. In Italia nessuno investe su questo, nessuno paga per delle nuove medicine.
Molti pazienti italiani malati di cancro arrivano fino a Houston per farsi curare nel suo istituto.
Sì, in tanti vengono da noi. Spesso si tratta di casi dati per impossibili in Italia. A volte dobbiamo arrenderci. Altre volte, per fortuna, ce la facciamo. Come una bambina di Firenza, che in Italia era data per spacciata. E ora sta bene e viene a trovarmi ogni sei mesi.
Quindi il cancro può essere curabile?
Certo, se continuiamo così. Si vede già che sta scomparendo. Non è più il male del secolo.