«In tempi eccezionali, decisioni eccezionali». Artur Mas, presidente della Generalitat de Catalunya, ha annunciato oggi il voto anticipato per il 25 novembre. Non c’è più possibilità di trovare un accordo con Madrid. Lo Stato centrale perde, le singole autonomie vedono un ritorno del nazionalismo, spinto a gonfie vele dalla crisi, mentre cresce nelle piazze indignate la domanda di una nuova Costituente.
Elezioni anticipate. «Stanchi di sentirci sempre dire di no e di disprezzo. Abbiamo diritto a decidere il nostro nostro futuro». Artur Mas, esponente di Convergencia I Uniò e presidente della Generalitat catalana, ci ha messo pochi istanti a capire l’11 settembre scorso che la grande manifestazione che commemorava la perdita, nel 1714, del diritto di auto-governo (Diada Nacional de Catalunya) chiedendo indipendenza, era la nuova base di consenso su cui puntare. E oggi ha deciso: sciolte le camere si andrà a nuove elezioni il 25 novembre, perché, come ha detto nel discorso davanti al parlamento catalano, «in tempi eccezionali, decisioni eccezionali».
Se la riforma dello stato delle Autonomie doveva essere il programma di governo del secondo mandato di José Luis Rodriguez Zapatero, è oggi che assistiamo a uno scossone politico che avrà conseguenze in altre regioni di Spagna e potrebbe porsi come modello a livello più esteso. Un modello federale, che la destra non permetterebbe e che il patto malsano di una Transizione democratica mai davvero consumata ha impedito fino a oggi, potrebbe avere delle conseguenze anche a livelli inaspettati. È dei giorni scorsi una minaccia di un’associazione di militari (Ame) di applicare la legge marziale a chi provasse a rompere l’integrità territoriale di Spagna. Di fatto, l’articolo 8 della Costituzione pone l’esercito come garante della stessa. Madrid non concederà nulla, politicamente, e anche dal punto di vista di un nuovo patto fiscale si è detta chiusa a ogni eventualità di modifica. Un vero e proprio schiaffo al presidente della Generalitat.
Una fase nuova, mai vista nella politica catalana
Joan Subirats, raggiunto da Linkiesta a Barcellona, è sociologo ed editorialista per il quotidiano El Pais. Parla di una fase mai vista nella politica catalana e spagnola. «Nello stesso frame – afferma – in questo momento si trovano le rivendicazioni tradizionali e la paura per il futuro. Molte persone che non sono indipendentiste hanno visto la possibilità di uscire dalla crisi con più capacità per le regioni autonome. Anche perché i trasferimenti dalla Catalogna al governo centrale sono un vero e proprio fallimento: se la capacità di generare Pil vede la Catalogna al terzo posto a livello nazionale, una volta esauriti i trasferimenti i catalani scivolano direttamente all’ottavo posto. Un ranking che dice molte cose».
Subirats non vede una propensione di stretto “egoismo” in chi ha abbracciato una svolta nazionalista, anche perché i dati sono particolarmente chiari nella regione autonoma: una disoccupazione superiore al 20%, oltre il 50% dei giovani senza lavoro e un deficit pubblico ben oltre il 20% del Pil, la sensazione latente che la Catalogna contribuisca in modo sproporzionato alle politiche spagnole di redistribuzione, è salito a un livello insostenibile. «Non è che le persone non sentano la solidarietà verso altre regioni spagnole, ma non sono disponibili a fallire dovendo dipendere economicamente da altre realtà. Un esempio: il Paese basco e la Navarra hanno un regime fiscale differente, rispetto a noi, e in questo momento se la cavano molto meglio rispetto alla crisi».
Crisi economica e della politica
«Se vende España». Scritto su un annuncio immobiliare e ben visibile nelle ultime manifestazioni di chi protesta. Nazionalismo come risposta alla crisi: da soli, forse, ce la si può fare. Ma è davvero questa la risposta alla nuova domanda di indipendenza e sovranità che arriva dalle piazze catalane? Le strisce gialle e rosse della bandiera, che sono sbarcate ufficialmente sulle divise del Barça, da settimane sono un incubo per il Partido popular al potere con Mariano Rajoy e hanno spinto i socialisti spagnoli a pronunciare la parola “Stato federale”, che per tanto tempo era rimasta se non proibita, inutilizzata.
Siamo nella Spagna di Bankia, delle sofferenze causate dalla bolla immobiliare degli anni passati, il famigerato ladrillo, il mattone che ha portato grandi guadagni, alleggerimenti fiscali, tassi d’interesse convenienti e devastanti conversioni di enormi quantità di terreno all’edificabilità. Rivelandosi alla fine un gioco da illusionisti. E mentre in Italia saliva il debito pubblico, gli spagnoli si indebitavano soprattutto nel privato, con un impoverimento costante e disastroso per chi aveva scelto la casa come bene di risparmio e investimento per il futuro, in una società che ne è uscita trasformata: se prima della crisi affitti e case di proprietà se la giocavano al 50%, oggi i proprietari di immobili sono il 78%.
C’è un forte richiamo per tutte le autonomie spagnole in quanto si sta vivendo sull’asse Barcellona-Madrid. Qualche cosa che si è scatenato non solo grazie alla crisi, ma anche rispetto a un clima sociale capace di rimettere decisamente in discussione meccanismi ormai fin troppo oliati. Barcellona, negli ultimi mesi, è stata uno dei cantieri più operosi per il movimento trasversale dell’indignazione. Il re, prima, e il presidente del governo, in seconda battuta, hanno cercato di demoralizzare i discorsi più aguzzi della Generalitat, che sta marciando spedita verso un referendum sulla sovranità nazionale.
Juan Carlos ha inaugurato la sua web di casa reale con un messaggio puntuto, in cui esortava a non seguire pericolose chimere. Mariano Rajoy ha ricevuto il presidente catalano uscente Mas non concedendo un millimetro rispetto alle rivendicazioni che gli sono state esposte. Ma l’indebolimento dello Stato centrale non viene solo dalla più importante regione autonoma (Xavier Vidal Folch ricordava in un editoriale su El Pais che può esistere una Catalogna senza Spagna, ma non una Spagna senza Catalogna); la delegittimazione di chi fa politica, della cosiddetta casta, è cosa che accomuna Roma a Madrid, anche se al posto delle cinque stelle grilline il movimento di denuncia spagnola è molto più ampio e trasversale, e senza necessità di leader carismatici.