“La chiave per il successo? Aver provato il fallimento”

“La chiave per il successo? Aver provato il fallimento”

Una sera a cena in un ristorante italiano della Silicon Valley, ci mettiamo a parlare con il proprietario che è – come si definisce lui – ‘persiano’. Chiede perché siamo lì e glielo spieghiamo: per imparare, per discutere di innovazione, per portarci a casa nuove idee. «Allora mi piacerebbe discutere di un’iniziativa che può rivoluzionare il nostro sistema dei pagamenti», dice. Noi lo guardiamo un po’ stupiti; in fondo volevamo solo farci una tranquilla cenetta in un ristorante italiano verso la fine del viaggio. E poi, è un ristoratore: che c’entra con la moneta virtuale, con le start-up? Ma più lo ascoltiamo più capiamo che sta lavorando seriamente all’idea da tempo e ne ha già discusso con uno dei fondatori di una delle aziende più famose della Silicon. Bene, ci accordiamo, e ci vediamo due giorni dopo alle sette del mattino da Starbucks per discutere dell’iniziativa.

Non so se riesco a trasmettere bene lo spirito di questa valle, ma il senso venuto fuori da questo viaggio tra giovani, imprendiotori e ingegneri è che se vivi in un posto che ti fa credere che puoi realizzare i tuoi sogni imprenditoriali ed essere innovatore, allora, non importa se sei Bill Gates o Hewlett, o Jobs, tu in ogni modo ci provi. E mettendo insieme le sinapsi di tutti, prima o poi, qualcosa nasce.

«E se si fallisce nell’iniziativa?», chiediamo. «We call failure experience», rispondono i venture capitalist. Se non hai fatto l’esperienza di fallire un’iniziativa, spiegano, non avrai mai la determinazione e la convinzione nel rendere un successo la prossima iniziativa.

Una cosa è chiara. L’innovazione, in questo angolo di Calfornia, rappresenta la forza propulsiva dell’economia. Basta incontrare imprenditori e top manager di aziende come Facebook, Google, Cisco, Hp per capirlo. E il confronto con il nostro Paese sembra quasi naturale. 

Nella Silicon Valley lavorano molti italiani. Come per le altre nazionalità, si è costituita una vera ‘rete’ di connazionali, che non solo si sostiene e si alimenta, ma ha soprattutto un approccio ‘giving back’, secondo il quale il successo che hanno raggiunto può essere d’aiuto per gli altri italiani che desiderano lanciarsi nella loro stessa avventura o per chi vuole stabilire un ponte con quel mondo di innovazione. Una filosofia di reale condivisione di conoscenze o opportunità, un’affermazione del ‘noi ci siamo’, che nel Paese di origine manca. 

Si parla spesso di rete o di rete delle reti, ma alla base della rete ci sono persone come queste, e l’atteggiamento che le caratterizza. Forse non è un caso che siano proprio i manager e gli imprenditori di Silicon Valley, i più aperti e i più innovatori, alla base di questa rete.

Una rete caratterizzata da uno spirito fortemente anticipatore dell’innovazione. Là oggi si guarda già all’innovazione che ci sarà nei prossimi dieci anni. D’altro canto, com’è possibile che imprenditori di Paesi che vogliono guardare al futuro, posto che lo vogliano davvero fare, possano ignorare dove si andrà tra cinque o dieci anni?

Dieci anni fa ci eravamo resi conto che nell’economia immateriale dei servizi non esistevano più barriere all’ingresso e cinque anni fa ci siamo accorti che non esistono nemmeno le barriere geografiche in riferimento allo spostamento di settori più materiali, come il manifatturiero. Con questo viaggio mi sono reso conto che in realtà proprio in settori grandi e consolidati come il manifatturiero non ci sono più nemmeno le barriere immateriali dell’innovazione. Ho trovato io stesso molti spunti, e lo dico da imprenditore metalmeccanico, sebbene nell’immaginario collettivo Silicon Valley rimanda a innovazioni di carattere immateriale, come le dotcom o internet in generale. Per chi volesse approfondire, suggerisco di guardarsi Tesla, l’azienda che sta lanciando l’auto elettrica. Non bisogna chiamarsi Audi, Ford, GM per entrare in quel mercato. 

Quello che mi ha colpito è il dialogo avuto con gli studenti italiani delle Università di Stanford e Berkeley, che hanno messo in luce le particolarità del sistema americano rispetto a quello italiano. Ci siamo confrontati sul perché queste preziose risorse non tornino poi in Italia: non è la tassazione, o la mancanza di flessibilità del lavoro o di infrastrutture, quello che veramente manca è un ‘ecosistema’ favorevole. Ovvero: se uno di questi ‘cervelli’ torna in Italia per lavorare in uno dei nostri centri di eccellenza e dopo un anno o due la situazione diventa negativa, guardandosi intorno non trova nessuna altra possibilità. A Silicon Valley invece hai la serenità di poter trovare numerose alternative.

Il tema per l’Italia in questo caso è quello di non puntare solo sulle eccellenze esistenti, ma di aumentarle sempre di più per farne una massa critica. Se veramente vogliamo riavviare il Paese. Le politiche di ‘ritorno dei cervelli’ basate esclusivamente sugli incentivi non funzionano; ciò che i cervelli all’estero chiedono al proprio Paese è di avere una prospettiva, una consapevolezza di dove vuole andare nei prossimi dieci anni. Un ecosistema che punta all’imprenditorialità e all’innovazione porta anche a situazioni tanto paradossali quanto stimolanti. 

È evidente che il Governo si deve occupare della crisi, dello spread, del contenimento del debito, della spending review. Che sono però solo le premesse per un processo di rilancio e sviluppo innovativo. Se non si inizia a lavorare su una prospettiva di futuro, dimentichiamoci dell’innovazione tipo Silicon Valley e dimentichiamoci che, anche con uno spread a 200, i talenti restino in Italia, in un Paese che sta urlando a gran voce ai giovani: «Andatevene via». Forse il ristoratore persiano qua da noi neanche ci proverebbe.

*CEO Saet Group, presidente Gruppo Giovani Imprenditori Torino

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