Gli esperti di fisco la chiamano «trasformazione delle attività per imposte anticipate iscritte in bilancio in crediti di imposta». In concreto, è un miracolo fiscale che tramuta crediti a babbo morto in moneta sonante, immediatamente spendibile per pagare qualsiasi tipo di tributo. Anche le ritenute mensili sugli stipendi dei dipendenti.
Il “comma 55”. Siamo nel campo in cui brilla da sempre il genio del Tremonti tributarista. Ed è proprio sotto l’egida di Giulio Tremonti ministro dell’Economia che il miracolo si compie: poste contabili destinate a rimanere congelate per quasi un ventennio si tramutano magicamente in crediti d’imposta veri e propri. E liquidissimi. Non è il fisco dei sogni ma l’effetto di un codicillo del decreto Milleproroghe 225/2010: il “comma 55” dell’articolo 2. Una norma confermata e perfezionata dal governo Monti – con il decisivo contributo dell’allora viceministro Vittorio Grilli, oggi ministro dell’Economia – e che solo adesso comincia a dispiegare i suoi effetti. Per svariati miliardi di euro. Pioveranno, in gran parte, su un gruppo piuttosto ristretto di contribuenti.
Contribuenti speciali. Il “comma 55” circoscrive l’ambito di applicazione alle «attività per imposte anticipate» relative alle svalutazioni di crediti, all’avviamento e altre attività immateriali come marchi, brevetti, etc., deducibili su più anni. Detta così, sembra una possibilità aperta a tutte le imprese. In realtà, dietro i rimandi normativi si scopre che le svalutazioni di crediti interessate sono solo quelle degli «enti creditizi e finanziari». Quanto all’avviamento, anche se la norma è generale, nei fatti si tratta di una voce di bilancio quantitativamente rilevante per i gruppi bancari, reduci da anni di fusioni e acquisizioni a caro prezzo. Nel complesso, dunque, una norma su misura.
Sulle perdite delle banche balsamo per svariati miliardi. L’unica condizione posta dal comma 55 è che il bilancio della società si sia chiuso in perdita. Esattamente, quello che è accaduto a fine 2011 per tutte le maggiori banche italiane: Unicredit ha chiuso con un rosso di 9,2 miliardi di euro, Intesa Sanpaolo 8,19 miliardi, Mps 4,7 miliardi, Ubi Banca 1,84 miliardi, il Banco Popolare 2,25 miliardi. Sulla base di un calcolo prudenziale, Linkiesta è in grado di stimare che quest’anno solo per le cinque maggiori banche italiane il beneficio finanziario supera 2,5 miliardi di euro. La norma, frutto di un’azione di lobby da parte dell’Abi e della Banca d’Italia di Mario Draghi, l’associazione delle banche presieduta dall’avvocato Giuseppe Mussari, è testualmente giustificata «in funzione anche della prossima entrata in vigore del nuovo accordo di Basilea», che inasprisce i requisiti di solidità patrimoniale delle banche.
Lobby bancaria. La ragione accampata dall’Abi è che le banche italiane siano penalizzate rispetto alle concorrenti estere. In questo, c’è del vero, ma chi in Italia non è fiscalmente penalizzato rispetto all’estero? Ai fini fiscali, per esempio, le svalutazioni dei crediti alla clientela (che la banca effettua quando ritiene che non recupererà per intero la somma prestata) non sono interamente deducibili nell’esercizio in cui avvengono: la normativa fissa un limite dello 0,30% del totale crediti in bilancio. La parte restante della svalutazione può essere dedotta «in quote costanti nei 18 esercizi successivi», e nel frattempo finisce in una specie di fondo dell’attivo, chiamato «attività per imposte anticipate» (Dta, Deferred tax assets, nel gergo degli analisti). Nell’immediato, quindi, la banca paga imposte più alte di quelle che teoricamente dovrebbe se le norme fiscali fossero allineate a quelle contabili. D’altra parte, il fatto che per esigenze di gettito il fisco costringa a spalmare su più anni costi che in base ai principi contabili sono di competenza di un singolo esercizio, è questione comune a tutte le imprese. Il miracolo tremontiano è stato rendere le “Dta” delle banche, illiquide e di durata quasi ventennale, qualcosa di immediatamente spendibile per compensare, nel modello F24, i debiti verso il fisco.
Come funziona. La trasformazione delle attività per imposte anticipate in credito d’imposta scatta quando il bilancio chiude in perdita, secondo una percentuale pari al rapporto fra la perdita dell’esercizio e il capitale sociale più le riserve. Più alta è l’incidenza delle perdite sul patrimonio, maggiore è il credito di imposta che si ottiene. Per esempio, se la banca ha attività per imposte anticipate per 1,5 miliardi, capitale e riserve per 15 miliardi e ha chiuso il bilancio con una perdita di 5 miliardi, ottiene un credito di imposta di 500 milioni (= 1,5 x 5/15). Somma che potrà utilizzare subito, e senza limiti di importo, in compensazione dei debiti fiscali. Nello stesso tempo, però, rinuncia a dedurre le attività trasformate negli esercizi successivi. Il gioco vale la candela, e soprattutto la liquidità che se ne ottiene, se la percentuale di trasformazione (leggi l’incidenza delle perdite sul patrimonio) è elevata e la vita residua delle attività per imposte anticipate è sufficientemente lunga.
I dati banca per banca. I dati raccolti da Linkiesta mostrano che gli effetti del “comma 55” sui bilanci 2012 delle banche saranno significativi. Per Intesa Sanpaolo, le Dta trasformate in crediti di imposta ammontano a circa 771 milioni. Si tratta di una stima preliminare, calcolate con criteri prudenziali in attesa di chiarimenti da parte dell’Agenzia delle entrate. Anche Unicredit si è avvalsa della previsione normativa convertendo in credito d’imposta attività per circa 588 milioni. Nel caso di Ubi Banca il beneficio sfiora 250 milioni, il Banco Popolare dovrebbe beneficiare di 484 milioni. Nella semestrale al 30 giugno 2012 del Monte dei Paschi di Siena, vengono evidenziati «crediti d’imposta per 521 milioni di euro, non ancora utilizzati in compensazione, derivanti dalla trasformazione di attività per imposte anticipate operata dalla Capogruppo e dalla Banca Antonveneta» per 840 milioni.
Beneficio di liquidità. Il direttore finanziario di una di queste banche si schermisce: la norma «non comporta alcun impatto positivo sul conto economico bensì un beneficio finanziario legato al mancato esborso monetario dato dalla possibilità di compensare i debiti d’imposta con il credito così acquisito». La stessa cosa potrebbe essere detta così: il fisco acconsente a un mancato introito monetario per concedere alle banche la possibilità di compensare i debiti di oggi con i crediti che sarebbero maturati dopo anni e anni. Nulla di scandaloso, se lo stesso trattamento fosse garantito anche alle centinaia di migliaia di contribuenti che da anni attendono rimborsi fiscali o il pagamento di forniture e servizi. La liquidità, oggi, ha un costo, come sanno i clienti delle banche.
Twitter: @lorenzodilena