Ma il problema italiano sono gli evasori o i parassiti?

Ma il problema italiano sono gli evasori o i parassiti?

Nella nota intervista in cui ha messo sotto accusa gli evasori fiscali e ha parlato addirittura di una “guerra” in corso, il premier Mario Monti ha sollevato questioni spinose, che stanno al cuore del dibattito filosofico della civiltà europea. Lo schema della riflessione di Monti, la cui sostanza è condivisa dalla quasi totalità del ceto politico in Europa e altrove, è un po’ il seguente: ognuno ha il dovere di destinare una quota delle proprie risorse all’apparato politico-burocratico; di conseguenza, chi si sottrae a ciò sta aggredendo la comunità nel suo insieme ed è sostanzialmente un ladro; per tale motivo è necessario che la collettività sostenga quanti (uomini politici, agenzie specializzate, forze dell’ordine) sono impegnati nella repressione di tali reati.

Sul piano storico-giuridico è interessante rilevare come la modernità abbia rovesciato i principi morali tradizionali, che in linea di massima consideravano un sopruso le pretese dello sceriffo di Sherwood, e non già la resistenza popolare dei servi di fronte ai signori. Quanti hanno confidenza con i testi della nostra tradizione religiosa sanno bene come il pubblicano (l’esattore) fosse una figura sociale sostanzialmente riprovevole, perché era costantemente portato ad abusare del proprio potere e soprattutto perché era al servizio del ceto politico e delle sue esigenze.

Ne La libertà e la legge, pubblicato in lingua inglese nel 1961, Bruno Leoni ricorda con quante difficoltà l’imposizione fiscale si sia radicata in età medievale. Basti pensare che «nel 1221, il vescovo di Winchester “chiamato a consentire ad una tassa di scutagium, rifiutò di pagare, dopo che il consiglio l’aveva concessa, perché dissentiva, e lo Scacchiere sostenne la sua difesa”». Leoni rileva anche che agli albori della modernità politica il principio no taxation without representation stava a indicare che nessuna forma di pagamento era autorizzata se chi doveva pagare non acconsentiva.

Tra il XVII e il XVIII secolo le grandi rivoluzioni furono essenzialmente ribellioni di carattere fiscale. In Inghilterra come in America, la società liberale nasce dalla difesa della proprietà di fronte al potere e, di conseguenza, da una strenua resistenza dinanzi alle pretese di ogni corvée e di ogni prelievo forzoso di denaro. Nel suo An Arrow against all Tyrants uno dei leader dei “livellatori”, Richard Overton, dichiarava senza mezzi termini: «Nessun uomo ha potere sui miei diritti e sulle mie libertà, e io non ne ho su quelli degli altri».

L’opposizione alla monarchia inglese si basava sulla convinzione che la salvaguardia della proprietà non fosse scindibile dalla quella della libertà. Il potere, insomma, ha sempre avuto bisogno di sottrarre ricchezze alla società, ma quest’ultima si è a lungo opposta a quelle pretese. Le cose sono mutate quando gli antichi re feudali si sono considerati gli unici possibili garanti dell’ordine e, di seguito, quando si è imposta l’idea che solo la coercizione statale fosse in grado di assicurare a tutti taluni beni e servizi.

Con le democrazie del welfare il rovesciamento di ruolo tra vittima e aggressore, sotteso alle parole di Monti, si consolida. In primo luogo, se “lo Stato siamo noi” (come ci raccontano le favole della religione civile, da Rousseau in poi) quando paghiamo le imposte non stiamo rinunciando a una parte del nostro reddito, né stiamo riducendo le nostre libertà. In secondo luogo, è ormai sempre più accettata l’idea che nessuno sia veramente titolare del reddito che produce: l’argomento di taglio collettivista, non dissimile da quello che legittimava i poliziotti che sparavano sui tedeschi dell’Est in fuga (quando provavano a valicare il muro di Berlino), è che noi siamo quel che siamo grazie agli investimenti pubblici.

Se siamo produttivi è perché lo Stato ci ha “costruito” come siamo. Da ciò discende che almeno una parte del reddito che creiamo è della collettività stessa. Ovviamente lo Stato è un’astrazione e non coincide affatto con la società. Si tratta però di una finzione utile a quanti grazie a essa sono in grado di imporre la propria volontà, ottenendo potere e risorse. In questo senso, non soltanto è difficile seguire Monti quando ci dice che il ceto politico è legittimato a tassare chiunque e come vuole: sulla base delle leggi che esso impone grazie alle procedure previste.

D’altra parte tutti si rendono conto quanto sia difficile simpatizzare per un senatore che legalmente guadagna 10 mila euro e condannare, invece, un artigiano che illegalmente ne incassa molto meno, poiché produce 3 mila euro, ma evade la metà di quanto – secondo le norme tributarie votate dai parlamentari – dovrebbe versare allo Stato. Se c’è una guerra, allora, questa oppone non già i buoni esattori e i cattivi evasori, ma due gruppi sociali che vanno diversamente definiti. Una tradizione di studi che ha mosso i primi passi ben più di due secoli fa contrappone quanti pagano più di quanto ricevono e quanti ricevono più di quanto pagano. Autori come Jean-Baptiste Say, Frédéric Bastiat, Herbert Spencer, Franz Oppenheimer, Albert Jay Nock, Ayn Rand e Murray N. Rothbard (ma un elenco completo sarebbe lunghissimo) hanno sottolineato precisamente il carattere redistributivo dell’azione pubblica, la quale spoglia alcuni gruppi e ne arricchisce altri.

Sulla base di questa semplice considerazione è comprensibile che quanti lavorano nel pubblico, vivendo delle risorse che il settore privato destina allo Stato, siano spesso portati ad approvare le parole di Monti, mentre coloro che operano nel privato sono assai più sensibili ai messaggi contro la violenza dello “Stato ladro”. C’è un’intervista rilasciata nel 1994 da Milton Friedman al Corriere della Sera che viene spesso ricordata dai nemici dell’imposizione tributaria. In quella circostanza l’economista premio Nobel rilasciò dichiarazioni esplicitamente a favore degli evasori: «L’Italia è molto più libera di quel che voi credete, grazie al mercato nero e all’evasione fiscale. Il mercato nero e l’evasione fiscale hanno salvato il vostro Paese, sottraendo ingenti risorse al controllo delle burocrazie statali». In quelle parole c’è la consapevolezza di un contrasto assai duro tra la parte produttiva della società e quella parassitaria.

Ora che declina la risibile contrapposizione tra una sinistra statalista e una destra analogamente statalista, la politica italiana potrebbe definire le proprie contrapposizioni proprio muovendo dalle parole di Monti e dal conflitto tra chi tassa e chi è tassato. Abbiamo qui lo scontro tra due visioni della società (una liberale e una collettivista) e soprattutto dobbiamo fare i conti con il concretissimo scontro di interessi tra due realtà sociali sempre meno in grado di dialogare e comprendersi. Perché se fino a qualche anno fa, la bestia da soma ha sopportato il carico quasi senza lamentarsi, questo ora non più possibile: e infatti molte imprese licenziano, altre chiudono, altre ancora si trasferiscono al di là dei confini.

I due gruppi sociali non sono facili da definire, anche perché la regolazione è talmente pervasiva e genera tante e tali opportunità di guadagni illegittimi (e del tutto legali) da far sì che ogni categoria è in un modo o nell’altro beneficiaria – oltre che vittima! – dell’intervento pubblico. Ma è pur vero che i commercianti e gli artigiani, gli operai e i liberi professionisti – e con loro tutti quanti con loro devono stare sul mercato e non hanno un reddito “garantito” – avrebbero da guadagnare dall’imporsi di un blocco di interessi che sappia individuare quale stella popolare i principi della libertà individuale, della protezione della proprietà, della salvaguardia dell’autonomia negoziale.

In un’Italia che sprofonda a causa del debito pubblico e dell’inefficienza di un conglomerato statale elefantiaco, costosissimo e terribilmente inefficiente, non ci sarebbe da sorprendersi se si assistesse allora all’emergere di nuovi soggetti politici caratterizzati da queste contrapposizioni, che in larga misura – non va dimenticato – sono anche di carattere territoriale. Perché non si può parlare di “questione settentrionale” senza comprendere questa stretta relazione tra uno Stato sfruttatore al servizio di vaste clientele e un Nord produttivo sempre più sfinito, in troppi casi incapace di stare sul mercato e sopportare gli oneri di una pressione fiscale e regolamentare ormai altissime.

*docente universitario di Filosofia Politica, Università di Siena

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