«La missione in Siria è quasi impossibile. Non proprio impossibile, ma quasi». A Lakhdar Brahimi, nominato il 17 agosto neo inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba in Siria come sostituto di Kofi Annan, non si può rimproverare la mancanza di chiarezza e una certa presa di distanza. Settantotto anni, nato in Algeria, ex diplomatico, Brahimi è considerato uno dei funzionari Onu con più esperienza nelle zone di conflitto (soprattutto Iraq e Libano). Fautore dell’approccio politico «no victor, no vanquished» (nessun vincitore, nessun vinto), il neo inviato del Palazzo di vetro aprirà un ufficio a Damasco o al Cairo.
Chi ha lavorato con lui ha assicurato che Mr. Brahimi seguirà ogni risvolto e ogni minuzia della sua missione siriana e si relazionerà direttamente con i protagonisti principali, facilitato – rispetto al suo predecessore – dalla conoscenza della lingua araba. Brahimi ha poi voluto chiarire immediatamente un aspetto fondamentale del suo lavoro, spiazzando di nuovo i giornalisti che lo stavano intervistando. Rivolgendosi ai ribelli ha detto: «Per favore, ricordate che io non faccio parte del vostro movimento. Io lavoro per due organizzazioni internazionali, le Nazioni Unite e la Lega Araba e non parlo la vostra stessa lingua». A chi gli domandava la sua opinione sulla destituzione di Bashar Assad, Brahimi ha preferito non rispondere. Come dire, in dubiis, abstine.
Ma in queste ore la grande preoccupazione dell’ inviato Onu è un’altra. «Sono francamente spaventato dal carico di aspettative che molti hanno», ha confessato. «La gente ci rimprovera che non stiamo facendo abbastanza. Già quest’accusa è di per sé pesante da digerire». Brahimi, per quanto sia possibile, cerca di rasserenare gli animi, dice di avere le idee chiare su come proseguire le trattative tra il Palazzo di vetro e il regime di Assad. È già in agenda un incontro tra i due che si terrà l’8 settembre a Damasco su cui, con ogni probabilità, si partirà dal piano di pace messo in piedi da Kofi Annan (considerato, in verità dagli analisti e dai fatti un chiaro flop) «per poi», ha detto Brahimi, «andare oltre». Il neo inviato si trova a gestire una situazione molto più complicata e pericolosa di alcuni mesi fa: secondo il Syrian Observatory for Human rights, dall’inizio degli scontri, diciotto mesi fa, agosto è stato il mese più cruento. Secondo questa organizzazione sono morte 5.000 persone. L’Unicef ieri ha diffuso un comunicato secondo cui nella settimana scorsa sono morte 1.600, tra cui moltissimi bambini.
Il regime, intanto, si difende con la solita litania: punta il dito contro i governi stranieri che sostengono, economicamente e militarmente, i «terroristi» siriani. «La situazione, come ha detto Mr. Brahimi, dal punto di vista umanitario è molto difficile», ha spiegato a Linkiesta una portavoce del UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in Giordania. Secondo l’agenzia dell’Onu, sono oltre 100mila i siriani fuggiti dal loro Paese, il numero più alto mai registrato in un solo mese dallo scoppio della crisi. Il numero totale dei rifugiati registrati è di 235.368. In particolare, 80mila sono arrivati in Turchia, 77mila in Giordania, più di 59mila in Libano e 18mila in Iraq. «Il numero delle persone che necessitano cure mediche, alloggi, cibo e supporto psicologico cresce molto velocemente». Dal UNCHR fanno sapere che oltre alla popolazione siriana, ci sono circa 95mila rifugiati in Siria, soprattutto iracheni, che hanno bisogno di aiuto. «Da quando sono iniziati gli scontri tra ribelli e regime, noi del UNCHR cerchiamo di dare una mano anche alla popolazione siriana. Devo ammettere – ha detto la portavoce – che c’è anche molta solidarietà tra civili e rifugiati, nonostante le difficoltà economiche stiano mettendo in ginocchio tutto il Paese».