In Italia, sulla cremazione, esiste dal 2001 una legge quadro. In gran parte recepita, seppur in tempi diversi, dalle Regioni, ha prodotto un quadro normativo con tante sfumature diverse. «Le norme regionali sin qui adottate», puntualizza Sereno Scolaro, della Sefit, l’associazione che riunisce le società funerarie di servizio pubblico aderenti alla Confservizi e alla Federutility, «possono suddividersi, grosso modo, secondo due filoni principali: quello delle regioni che hanno inteso regolare, più o meno, l’intera materia a vario titolo connessa con il settore funerario (cioè comprendente il funebre, il cimiteriale, la cremazione), quello delle regioni che hanno ritenuto d’intervenire solo sulla cremazione o, anche, sulla cosiddetta destinazione delle ceneri. È difficile cogliere un quadro che possa dirsi in qualche modo unitario, con la conseguenza che, rispetto alle medesime situazioni, vi sono diversità, a volte anche profonde, nelle soluzioni».
La stessa situazione applicativa è a macchia di leopardo. Infatti quasi nessuna delle Regioni ha elaborato, come aveva invitato a fare la legge 130 del 2001 entro 6 mesi dalla sua entrata in vigore, il piano regionale «di coordinamento per la realizzazione dei crematori da parte dei comuni, anche in associazione tra essi, tenendo conto della popolazione residente, dell’indice di mortalità e dei dati statistici sulla scelta crematoria da parte dei cittadini di ciascun territorio comunale, prevedendo, di norma, la realizzazione di almeno un crematorio per regione». C’è poi da considerare che non è mai stato emanato il decreto interministeriale che, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge 130, avrebbe dovuto definire «le norme tecniche per la realizzazione dei crematori, relativamente ai limiti di emissione, agli impianti e agli ambienti tecnologici, nonché ai materiali per la costruzione delle bare per la cremazione». Anche a causa di ciò, sono ancora tanti i Comuni capoluogo di provincia privi di un forno crematorio. Ma la difficoltà di installazione di nuovi impianti è dovuta anche al timore (inconscio, ma non reale) di inquinare: è un problema più che altro psicologico, dovuto alla percezione che dalla ciminiera esca una sorta di distillato di morte e non, come succede nella stragrande maggioranza dei casi, fumi controllati, con livelli di emissione entro i range ammessi. Può quindi capitare di dover trasportare, a proprie spese, la salma a centinaia di chilometri di distanza dal luogo in cui il defunto risiedeva. Oltretutto in taluni Comuni la burocrazia in materia di cremazione è talmente articolata che può trascorrere anche un mese tra la data del decesso e quella dell’interramento o tumulazione dell’urna cineraria. Ma può anche succedere che gli appesantimenti burocratici siano tali da fare passare ai parenti la voglia di rispettare la volontà del defunto di farsi cremare.
Anche per queste ragioni la cremazione rimane una scelta minoritaria nel nostro Paese. Ma sullo scarso appeal della cremazione pesa pure la posizione ufficiale della Chiesa cattolica, che fino a poco meno di 50 anni fa non ammetteva la possibilità di praticare la cremazione. Nel 1963 giunse la prima apertura. Quell’anno, a seguito del Concilio Vaticano II, con l’istruzione Piam et constantem venne ribadito l’invito ai vescovi di predicare l’inumazione, ma al contempo disposto come ai fedeli che scegliessero di farsi cremare potesse esser concessa la sepoltura ecclesiastica, a condizione che la loro scelta non derivasse dalla negazione dei dogmi cristiani, da appartenenze a sette, dall’odio verso la religione cattolica o verso la Chiesa. L’orientamento della Chiesa nel tempo si è via via ammorbidito, fino ad giungere alla presentazione, nel marzo scorso, della seconda edizione italiana del Libro delle esequie, curato dalla Cei ed il cui contenuto diverrà precetto dal mese di novembre. Nell’opera si sancisce un sì condizionato alla pratica di cremare i defunti: le ceneri, per la Chiesa cattolica, devono essere conservate nei cimiteri e non dispersi in mare o altrove in natura né conservate in casa o in giardino.
Nel resto d’Europa, dove i condizionamenti confessionali sono evidentemente meno pressanti, il numero delle cremazioni pesa invece per circa il 40 per cento sul totale dei decessi. Con picchi molto alti in Gran Bretagna (75 per cento), Danimarca (76 per cento) e Svezia (77 per cento).
Nel Regno Unito la cremazione è una pratica molto diffusa, che peraltro presenta la peculiarità secondo cui la dispersione delle ceneri viene fatta un mese dopo la cremazione: ciò al fine di mettere in condizione i parenti di avere a disposizione un congruo temine per ripensarci. In Francia, invece, è stato eliminato l’affidamento ai familiari delle ceneri, su indicazione di una categoria professionale, quella degli psicologi. Questi ultimi hanno ravvisato il dubbio che tenere in casa le ceneri del defunto possa non aiutare un utile processo di elaborazione del lutto.
Nel nostro Paese la pratica della cremazione è stata, per molto tempo, quantitativamente ridotta. I primi dati disponibili, quelli del 1970, (tabella sopra; clicca sulla lente per ingrandire) vedevano poco più di 1.000 cremazioni effettuate, che nel tempo sono cresciute progressivamente, fino a raggiungere quota 77mila nel 2010. Nel 1987 fu prevista la gratuità della cremazione, equiparandola all’inumazione, con l’evidente finalità di favorirla. Nel 2001, con il varo della legge nazionale in materia, la cremazione è poi tornata a essere a titolo oneroso. Ma questo non ha inciso negativamente sul trend di crescita del numero di cremazioni effettuate, come si ricava dalla serie storica di dati elaborati puntualmente ogni anno da Sefit.
Mentre le differenze tra i Comuni sono influenzate dalla presenza degli impianti di cremazione (ad oggi sono 55), le discrepanze numeriche tra le singole regioni si spiegano anche per ragioni antropologico-culturali. Basti pensare al caso della Sicilia, fanalino di coda nella classifica della pratica della cremazione (187 cremazioni, pari allo 0,2 per cento sul numero di decessi). Qui i “deficit” culturali sul tema della cremazione si uniscono a quelli organizzativi e normativi. L’unico impianto presente nell’Isola si trova a Palermo. Si tratta di una struttura costruita oltre vent’anni fa, mal funzionante e per molti periodi dell’anno ferma a causa di ritardi nell’attività di manutenzione a cui detti impianti devono essere sottoposti. Cosicché i cittadini isolani che decidono per la cremazione, devono “spedire”, a proprie spese, la salma al forno crematorio di Montecorvino Pugliano, in Campania, a 300 chilometri di distanza dal luogo di residenza del defunto. Tornando ai numeri più recenti elaborati da Sefit, le cremazioni effettuate nel corso del 2010 sono cresciute del 6,9 per cento rispetto all’anno precedente, traducendosi in un aumento di 4.970 unità.
Nel 2010 si sono registrate a consuntivo 76.868 cremazioni di feretri, contro le 71.898 del 2009. L’incidenza effettiva della cremazione sul totale delle sepolture (587.488, dato Istat) è del 13,08 per cento per l’anno 2010 (contro il 12,5 per cento a consuntivo del 2009). Analizzando il dato territoriale, si può valutare come le regioni dove la cremazione è più sviluppata (in termini di rapporto percentuale delle cremazioni eseguite sul territorio rispetto al dato nazionale) sono: Lombardia (+27,9 per cento), Veneto (+ 12,1 per cento) e Piemonte (+11,7 per cento). Le regioni che hanno visto la crescita percentuale maggiore nel 2010 rispetto al 2009 sono invece: Umbria (+24,9 per cento), Trentino Alto Adige (+13,2 per cento) e Piemonte (+9,7 per cento). Quelle invece che rispetto all’anno precedente hanno registrato una crescita numerica più elevata sono state: Veneto (+1.623), Toscana (+1.385) e a pari merito Lazio e Piemonte (+ 1.351 ciascuna). Il ricorso alla cremazione continua ad avvenire soprattutto al Nord, che ha una maggiore presenza di impianti, ma anche al Centro. Milano, Roma, Genova e Torino rimangono le città col maggior numero di cremazioni effettuate, rispettivamente con 7.794, 7.361, 4.973, 3.348 (anche se è bene chiarire che si tratta di cremazioni svolte per un’area che spesso è almeno provinciale, se non ancor più estesa). La regione in assoluto dove si crema di più è la Lombardia (che è tra quelle meglio dotate di impianti di cremazione), con 21.462 cremazioni, seguite come sempre da Veneto (9.288) e Piemonte (8.978).
Rispetto ai costi, per effetto della legge nazionale del 2001, la cremazione in Italia, come si diceva, è divenuto un servizio pubblico locale, sottoposto a un regime di prezzi controllati: nel 2012 la tariffa massima stabilita dal Ministero dell’Interno è pari a 578,59 euro. Va detto che ogni Comune sede di crematorio può poi decidere di differenziare le singole tariffe in relazione al tipo di servizio offerto. Ci sono città che, anche al fine di incentivare la cremazione, hanno tariffe modeste (a Verona di pagano 210 euro, a Bolzano 188 euro, a Venezia 130 euro, a Milano 262 euro) o addirittura, come nel caso di Roma, che non applicano alcuna tariffa.
Nei Comuni sprovvisti di forno, però, i costi sono decisamente elevati: a Parma, ad esempio, dove alla tariffa della cremazione si deve aggiungere il costo del trasporto della salma a Reggio Emilia o a Mantova, si può arrivare a pagare più di 2.000 euro, ossia 4-5 volte la tariffa media applicata in Italia. In ciò dunque annullando il vantaggio economico sulla sepoltura in ossequio ai canoni della tradizione cattolica. Un vantaggio economico che però raramente è motivo determinante della scelta di procedere alla cremazione del defunto.