Mi sono preso la libertà di scrivervi non da nemico del libero mercato capitalista, né da francese devoto al Colbertismo, ancora meno come un europeo di scuola anti-americana. In realtà, vi scrivo come un militante dell’euro, guidato dalla passione e dalla ragione, annoiato dalla lettura obbligata, lunga un anno intero, di una tale quantità di profezie, molte nel The New York Review, sull’imminente morte dell’euro; alcune di queste predizioni, per qualunque motivo o intenzione (buoni o cattivi che fossero), stanno diventando profezie auto-avverantesi.
Oltre le opinioni numerose, è possibile intravedere una credenza profonda e radicata e un sentimento istintivo sul fatto che nessun costrutto politico – e l’euro è un costrutto politico, non dimentichiamolo – possa governare i mercati. Voi avete sbandierato questa critica dell’euro dal giorno della firma del trattato di Maastricht fino al giorno dell’implementazione della moneta. Una volta che l’euro è stato messo in circolazione, siete stati in silenzio fino a quando sembrava rafforzarsi sul dollaro, con un tasso di cambio favorevole da 1,30 dollari a 1,40, ma avete di nuovo aperto bocca una volta che ha mostrato le sue debolezze – non dimentichiamoci che è sceso dal suo tasso iniziale di 1,17 dollari a meno di 0,95 – e ora che la crisi del debito sovrano sembra diffondersi, alcuni di voi ridacchiano intravedendo il baratro, quel che in tedesco si dice Schadenfreude – letteralmente, una gioia maliziosa per il dolore degli altri.
Molti di voi non si inseriscono in questa categoria: voi non vi qualificate come zeloti radicali del mercato; voi sostenete con forza l’ideale europeo, dite di sostenere l’euro, ma vi aggrappate a dichiarazioni di principi: nessuna moneta può sopravvivere se non è basata sul potere politico. Se gli europei non superano rapidamente ogni ostacolo che porta allo stato unico federale, l’euro è condannato. Dato che i più astuti tra voi sanno bene che si sta chiedendo l’impossibile, la moneta unica vi appare già come lettera morta.
Ci sono diversi economisti tra voi che vedono la moneta unica come la chiara negazione di ogni principio di libero mercato. Ossessionati come siete dalle ineguaglianze competitive, voi credete che i paesi meno competitivi, incapaci di svalutare la loro moneta, debbano ricorrere a una deflazione interna con una conseguente rivolta sociale inarrestabile. Questo sillogismo è particolarmente caro al mio amico Nouriel Roubini: i paesi periferici dell’Unione sono stati obbligati a fare svalutazioni interne, e tagli speciali dei salari che potrebbero portare a una rivoluzione; il governo, quindi, deve optare per l’uscita dall’euro invece che subire una rivoluzione.
Ultima cosa, molti di voi pensano che l’euro potrebbe sopravvivere se la Banca Centrale Europea operasse più o meno come la Banca d’Inghilterra e stampasse moneta senza alcun limite. Gli esperti le ritengono credenze strambe, che sfidano decadi di un’ortodossia che considera l’uso della banca centrale come finanziatrice del debito di un paese equivalente a un tradimento economico.
Lungi da me suggerire che queste analisi siano tutte databili o completamente sbagliate. Per lo stesso motivo, lungi da me insistere che la soluzione in Europa possa essere, in qualche modo, pacifica. E ultima cosa, lungi da me sottoscrivere il credo illusorio, troppo comunemente sostenuto in Europa, che ci sia una cospirazione di qualche genere tra le economie anglo-sassoni per la distruzione del continente europeo. Ma credo, d’altra parte, che le vostre opinioni sull’euro abbiano ben più che qualche manchevolezza.
La vostra attenzione si è fissata sulla complessità del sistema europeo, che voi condannate come inefficiente, privo di alcun potere, intrappolato dalla rapidità dei mercati, e completamente inconsapevole delle sfide che affronta. Un po’ di umiltà da parte vostra sull’argomento sarebbe comunque una buona cosa. Posso ricordarvi che ventisette parlamenti nazionali europei hanno approvato un primo soccorso al debito della Grecia, mentre la prima decisione dell’autunno del 2008 presa dalla vostra Camera dei Rappresentanti è stata rigettare il piano di salvataggio Tarp, aggravando così la crisi post-Lehman? Posso azzardare un paragone tra, da una parte, i battibecchi e le recriminazioni dell’estate del 2011 del Congresso statunitense sul debito americano che hanno spinto la potenza economica più grande del mondo sull’orlo del fallimento, mentre, dall’altra, i voti parlamentari dei diciassette membri dell’eurozona che hanno approvato il secondo pacchetto di aiuti per la Grecia tra il luglio e l’ottobre del 2011 – vale la pena ricordarlo – lasciando spazio a un futuro condono parziale del debito?
Il processo decisionale europeo può essere alquanto tortuoso, macchinoso, e poco trasparente per la cittadinanza, ma funziona. Chi poteva immaginare, solo due anni fa, la creazione di fondi di stabilità seguiti da un accordo su un meccanismo efficiente di stabilità finanziaria? Tuttavia questi strumenti sono tecnicamente adeguati alla dimensione dei problemi spagnoli. Non sono all’altezza dei problemi italiani. Ma il rischio di fallimento dell’Italia, la nazione con il terzo debito più grande del mondo, non è solo un problema europeo. È un problema globale: né gli Stati Uniti, la Cina, o il Giappone, possono prendersi un rischio simile. Mi sembra così poco giustificabile criticare gli europei, e solo gli europei, per un simile fallimento nel tentativo di proteggersi da una crisi che ha investito l’intera comunità finanziaria mondiale.
Chi poteva mai immaginare che, permeata di cultura della Bundesbank, la Banca centrale europea avrebbe acquistato debito sovrano e messo in atto una politica monetaria espansiva con prestiti su larga scala, più ampia, in rapporto al Pil, di quella messa in atto dalla Fed? Chi avrebbe pensato che Mario Draghi, col supporto di Angela Merkel, avrebbe schierato una specie di “deterrente nucleare” davanti ai mercati, impegnandosi a intervenire con tutto il necessario – così ha detto – senza limiti, per salvare l’euro? Pensate che sia normale, in quel contesto, suonare l’allarme e spiegare che, senza una “protezione” di uno, due o tre miliardi di euro a seconda dell’opinione, l’Eurozona è condannata? Che effetto vi fanno queste considerazioni? Ad ogni modo, preferisco ignorare questo tipo di dichiarazioni se fatte da operatori che stanno prendendo posizioni ribassiste sull’euro.
Ogni volta che i sondaggi dell’opinione pubblica evidenziano la disillusione di questa o quella parte della popolazione europea, specialmente in Germania, siamo assaliti dai proclami di condanna dell’euro da parte dei giornali, che portano, come prova, la mancanza di confidenza dei mercati e il malcontento pubblico. Così facendo, vi mostrate incapaci di comprendere che, anche se l’opinione pubblica può non essere d’accordo, i dirigenti governativi hanno fatto la loro scelta. Davvero credete che i tedeschi siano inconsapevoli dei benefici che hanno ottenuto dall’euro? Basta che prestino attenzione alla crescita ininterrotta del franco svizzero per capire chiaramente quanto il sistema “euromarco” potrebbe danneggiare le loro esportazioni. Naturalmente il danno non sarebbe limitato alle loro controparti europee, che sarebbero paralizzate da una fortissima recessione in caso di collasso dell’euro, ma si estenderebbe ai mercati emergenti, non intenzionati a comprare prodotti a prezzi gonfiati dalla crescita dell’euromarco. Pensate che i tedeschi siano così ingenui da non riuscire a capire che l’attuale crisi finanziaria è stata di enorme aiuto a loro e alla loro produzione, su cui si esercitava una pressione minore dai tassi di cambio? Persino la testata nazionalistica Bild è stata obbligata a concordare su questo punto.
Il governo finlandese, o il suo equivalente di qualche altro paese, può sicuramente vincere sui nodi politici interni attaccando l’euro; queste sono piccole vicissitudini a cui attribuite troppa importanza, perché non riuscite ad apprezzare completamente i pro e i contro della politica europea. Abituati ai retroscena del dibattito di Washington, paragonate la nostra politica agli “stop and go” della politica economica americana. Non consapevoli della complessità della politica europea, vi aspettate dall’Unione un semplice susseguirsi di operazioni meccaniche che, per definizione, sono impossibili da ottenere in qualsiasi sistema democratico, tanto meno con uno idiosincratico e altamente sofisticato come quello che abbiamo in Europa.
Allo stesso modo, non riuscite a cogliere – non saprei dire se intenzionalmente o no – un fatto lampante: non c’è un leader politico europeo – lasciatemi dire, non uno – disposto a prendere su di sé la responsabilità di firmare la condanna a morte dell’euro. La memoria delle guerre che hanno devastato la società europea è ancora troppo forte perché chiunque possa cancellare il processo che porta all’unità europea. Nessuno, in Europa, dubita per neanche un minuto che il collasso dell’euro porterebbe automaticamente al collasso dell’Unione Europea. Persino lo statista più incauto tratta con prudenza questo ambito una volta al potere.
Il peso della storia non è l’unico fattore in gioco. Chiunque sa, per istinto, che la distruzione dell’euro porterebbe con sé una catastrofe finanziaria che farebbe apparire, al confronto, la caduta di Lehman Brothers un picnic domenicale. L’idea che questo o quel paese, economicamente forte o debole che sia, ritorni alla sua moneta nazionale è inconcepibile. Non si può dire quanto tempo abbiamo a disposizione per prendere questa decisione; se questa scelta venisse fatta rapidamente nel giro di un fine settimana, creerebbe un disastro bancario ed economico molto più grande di quello del 1929.
Se un paese economicamente forte lasciasse il sistema, la sua moneta subirebbe un rialzo che strozzerebbe le economie più deboli. Se fosse un paese debole ad andarsene, la sua moneta si deprezzerebbe, facendo esplodere una recessione devastante. E questo è nulla in confronto al caos del sistema bancario, alla sfida di creare una moneta fiduciaria, all’impossibilità di riscrivere immediatamente tutti i contratti, all’obbligo d’imporre una revisione drastica dei tassi di cambio, ai ritardi nel pagare gli imprenditori, all’instabilità della rete commerciale, e all’assoluta impossibilità di forzare i mercati a funzionare bene. Pensare, come alcuni di voi scrivono, che una transizione simile potrebbe essere progettata in anticipo con freddezza è un’ingenuità infantile. Il segreto non potrebbe essere tenuto a lungo e i mercati potrebbero crollare in preda al panico.
C’è una solida consuetudine politica che governa la nostra democrazia: le amministrazioni odiano i salti nel vuoto. Ora, a parte una guerra termonucleare, non c’è un’incognita più pericolosa per un paese europeo che uscire dall’euro. Perché gli europei sono così tanto spaventati dal vedere tornare alla dracma la piccola Grecia – che rappresenta appena il 2% del Pil europeo e che sostanzialmente si è prosciugata per entrare nell’Unione Europea? Se il paese in questione fosse, ad esempio, la Spagna, sul gradino più basso della scala, o la Germania, nel punto più alto, la paura e l’ansia sarebbero enormi. Abbiamo la certezza che, volenti o nolenti, i leader europei, pur di prevenire risultati simili, accetteranno decisioni che oggi non possono neanche immaginare, decisioni che vanno drasticamente contro le loro convinzioni abituali. Tra queste decisioni ci sarebbe l’estensione, se necessario, dei prestiti da parte delle istituzioni europee su una scala mai vista. Chi avrebbe pensato, qualche mese fa, che Mario Draghi, governatore della Bce, avrebbe annunciato un accordo per comprare, senza limiti, titoli sul mercato secondario? Se necessario, dato che non può fallire, potrebbe anche andare oltre.
Ma, ribatterete voi, tutte queste considerazioni politiche e storiche significano poco davanti alle forze del mercato che hanno opinioni proprie sul come analizzare la realtà economica.
In ogni caso, non dimentichiamo che per dieci lunghi anni si è creduto che la Grecia fosse stabile come la Germania, che lo stato della salute economica del Portogallo potesse competere con quello olandese, e si sono finanziati tutti i paesi con gli stessi tassi: questo significa trattare le decisioni dei mercati come verità evangeliche. Non mi sembra di aver sentito, in questi anni, uno solo di voi alzarsi indignato inveendo contro la follia e le analisi di queste stime, finché i mercati non si sono scontrati con il muro della realtà.
Andiamo un po’ indietro nel tempo: chi siamo noi per discutere la vostra tesi sull’incapacità dell’euro di sopravvivere alle sue disparità interne, ovvero sull’ineguale competitività tra i paesi? In questi giorni, in ogni discussione sull’eurozona, si sente parlare esclusivamente della competitività. Ma si trascura il fatto che le sfide che i paesi periferici stanno affrontando non possono essere misurate su questo parametro. Prendiamo il caso della Grecia. Quanti articoli sono stati pubblicati che dimostrano che la Grecia deve fare una svalutazione della moneta per rilanciare la propria competitività in Europa? Questo è come dire che una volta che la moneta è stata svalutata, l’industria greca sarebbe pienamente capace di competere con la sua rivale tedesca! Quel che spaventa la Grecia non è una mancanza di competitività; spaventa di più l’assenza del governo, o, semplicemente, un sistema fiscale inefficiente. Se i contribuenti greci – e io aggiungerei la chiesa e i costruttori di navi, ad ora esonerati dalla Costituzione greca! – si trovassero faccia a faccia con il fisco francese – o un’autorità fiscale in stile inglese – il bilancio nazionale potrebbe avere un avanzo primario immediato.
La svolta tragica è che, per ragioni di orgoglio nazionale, non possiamo chiedere ai greci di sottomettersi a un’amministrazione europea provvisoria che imponga loro le regole di un’economia moderna in merito a fisco, competitività e governo. Così per l’Italia, come possiamo parlare di mancanza di competitività con il paese in avanzo commerciale? Il difetto che paralizza l’Italia è l’aver ereditato un debito storico. D’altra parte, il suo bilancio nazionale registra un avanzo e la disoccupazione resta relativamente bassa. Il paese ha bisogno di crescita così che, mantenendo i propri conti stabili, possa cominciare a ridurre il freno del debito sull’economia. Per fare questo, ha bisogno di riforme strutturali, come regole a favore di una maggiore competitività, una riduzione dei costi del lavoro, una condivisione mutualistica degli oneri e una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro: sono tutte riforme che Mario Monti sta cercando di implementare. Non è neanche una questione di competitività che ha colpito la Spagna, ma un doloroso procedimento per salvarsi dalla bolla immobiliare che le aveva donato una crescita fittizia.
Il Fmi è in grado di comprendere le sfide specifiche che ognuno di questi paesi affronta e non si accontenta di dare una risposta generica ai problemi. L’unico paese in cui sarebbe legittimo concentrarsi esclusivamente sulla competitività è la Francia. Il deficit commerciale mostra chiaramente la questione nella sua interezza. Ma i mercati, così concentrati sulla competitività dei paesi europei meridionali, per ora hanno completamente trascurato la Francia – e la cosa, da francese, mi riempie di gioia!
Non penserei neanche di spingervi a scommettere contro il debito inglese. Ma trovate rassicurante la tripla A data al Regno Unito dalla agenzie di rating di cui voi, comprando i titoli dello Scacchiere britannico, ne confermate il giudizio, trattandoli al pari dei titoli tedeschi? Eppure l’Inghilterra ha un deficit di bilancio maggiore della Spagna, un tasso di crescita economica anemico come quello dell’eurozona, un indebitamento privato eccessivo e livelli medi di competitività. Quindi, qual è la ragione del buon rendimento inglese? Nasce dalla credenza che la banca centrale, libera di fare quel che considera più giusto, stampi tutta la moneta necessaria? Non sono, quindi, le statistiche economiche inglesi a giustificare la confidenza dei mercati, ma la loro fede nella possibilità della Banca d’Inghilterra di creare moneta! Questo è l’esatto opposto di tutto quello che i mercati hanno creduto per decenni. Non era così tempo fa, quando i mercati punivano ogni paese che stampava moneta per finanziarsi. È insolente suggerire che voi applicate standard diversi a diverse aree monetarie?
Ciò che vale per l’Inghilterra vale anche per il vostro paese. Non ho interessi, da europeo, nel vedervi danneggiare il dollaro e i titoli del tesoro statunitense: noi saremmo i primi a esserne colpiti. Ma voi sapete molto bene che nel panorama dell’indebitamento globale – presi stati, imprese, individui – la zona del dollaro è indebitata ben più del doppio dell’eurozona. Ma i fattori che, appena qualche anno fa, sembravano la causa naturale della debolezza della vostra moneta, ora svaniscono dall’attenzione generale. A sentire voi, non c’è più nessuna relazione tra la forza di una moneta, il livello generale dell’indebitamento, e i tassi d’interesse.
Lungi da me suggerire che sia stata creata una gerarchia di cause. In realtà, tutte le cause possono essere considerata vere o false nello stesso momento, perché la scienza economica non è una scienza esatta. Ma nonostante la tranquillità con cui voi passate da un’opinione all’altra, con il rischio di dimenticare che una volta veneravate gli idoli che ora state bruciando, dovreste almeno considerare alcune mancanze nella vostra metodologia. Convinto come sono della tenuta dell’euro, credo che un giorno voi cambierete la vostra opinione in suo favore, con la stessa certezza con cui ora siete convinti che sia destinato a sparire. La vera ragione del vostro cambiamento d’opinione non avrà niente a che fare con la scienza economica, o la prova di una teoria contro un’altra. Il motivo sarà che avrete improvvisamente capito che gli europei non possono, e non potranno, e non sanno neppure come, distruggere la loro creazione, ovvero smantellare la moneta unica.
Articolo originariamente pubblicato sulla New York Review of Books
*Alain Minc è un saggista, politologo ed economista francese. Per leggere il suo profilo clicca qua