Solo vederle nella cassetta della posta ci fa paura. Perché dalle bollette ci si aspetta proprio tutto. E sono pochi i casi in cui, aperta la busta, si pensa: «Per fortuna, credevo di dover pagare di più». Soprattutto per quelle del gas, visto che le tasse italiane applicate sul metano sono le più alte in Europa. E da oggi l’Autorità per l’energia ha anche aumentato dell’1,1 per cento le tariffe delle famiglie che hanno scelto il mercato in tutela. Con un rincaro di 14 euro in più in un anno. Che, come ha calcolato Altroconsumo, per una famiglia che consuma circa 1.400 metri cubi annui significa una spesa di oltre 100 euro in più. Ma spesso, di una bolletta, si guarda solo il totale da pagare. E gli altri fogli, densi di voci e numeri, vengono ignorati. È proprio da quei dati, però, che si può capire molto del mercato del gas in Italia, tra quote fisse, variabili, prezzo della materia prima, accise e Iva. E, alla fine, sapremo meglio perché dopo la fila alle Poste il nostro portafogli sia molto più leggero.
Anzitutto, per stabilire la tariffa del gas, nel nostro Paese esistono due modalità. Una è quella del cosiddetto “mercato a maggior tutela” (il 28,5% delle vendite nel 2011), in cui le condizioni economiche e contrattuali della fornitura del gas vengono stabilite dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas (Aeeg) e aggiornate ogni tre mesi in base all’andamento del mercato. Questo servizio, però, è solo valido per chi non ha mai cambiato fornitore dopo il 31 dicembre 2002 o ha scelto, tra le proposte, quella a condizioni regolate. Poi ci sono le tariffe del mercato libero, in cui le condizioni economiche e contrattuali sono concordate di volta in volta tra cliente e fornitore e non fissate dall’Autorità per l’energia. Generalmente, nel mercato libero il prezzo viene bloccato per uno o due anni: il che può essere a vantaggio del consumatore solo se il prezzo bloccato si mantiene più basso di quello del servizio di tutela.
Il contratto con la società scelta, da Eni ad A2A, è diverso a seconda che la fornitura sia per una casa o un’azienda. E da qui dipende anche la tipologia e lo scaglione di consumo in cui si viene inseriti, che varia in base a come e quanto usiamo il gas. Chi ha lo scaldabagno elettrico, ad esempio, avrà una fornitura e un fabbisogno minore di gas rispetto a chi invece ha il riscaldamento con la caldaia a gas.
Ma andiamo ai costi. Per stabilire il prezzo finale della nostra bolletta un fattore importante è il coefficiente di conversione C [1], che trasforma il consumo misurato dal contatore, espresso in metri cubi, nell’unità di misura utilizzata per la fatturazione, cioè gli standard metri cubi (Smc). Questo coefficiente viene usato perché il volume di una stessa quantità di gas, e quindi lo stesso contenuto di energia, dipende dalla pressione e dalla temperatura della località in cui il cliente si trova. Il gas che entra nelle nostre case non è mai in condizioni di temperatura e pressioni standard e questo coefficiente permette di calcolare l’effettivo calore che il gas naturale venduto è in grado di produrre. Una volta stabilito che la temperatura ottimale all’interno di una abitazione è di 20 gradi centigradi, per ogni località italiana sono state misurate le temperature medie giornaliere nel periodo invernale (GG, numero di gradi giorno), a cui vengono sommati per ogni giorno i gradi necessari per arrivare alla temperatura ottimale. In questo modo tutti comuni italiani sono stati suddivisi per area climatica.
Più la località è fredda, più alto è il valore del coefficiente. Più bassa è la temperatura, più calore è possibile ricavare da ogni singolo metro cubo di gas. Viceversa, il coefficiente scende con la diminuzione della pressione atmosferica e quindi con l’aumento dell’altitudine. La stessa quantità di gas occupa infatti un volume diverso a seconda che venga consegnato al mare o in montagna. Per fare in modo che tutti paghino lo stesso importo a parità di energia consumata, la società di distribuzione determina quindi il valore del coefficiente C.
Un’altra lettera da ricordare è la P [2], che sta per “potere calorifico superiore” e rappresenta la capacità del gas di produrre energia. Serve per convertire il consumo di gas, espresso in metri cubi, in consumo di gas valorizzato in energia. Rappresenta, insomma, la quantità di energia contenuta in un metro cubo di gas a condizioni standard di temperatura e pressione.
Per la determinazione del prezzo finale, bisogna tenere conto poi sia del consumo stimato dall’erogatore in base alle letture precedenti sia della lettura effettiva rilevata dagli addetti. Una volta all’anno o una volta ogni sei mesi, viene effettuato un conguaglio, che salda la differenza tra la lettura stimata e quella effettuata. Tra i costi da sommare ai consumi rilevati o fatturati, ci sono i costi dei servizi di vendita [3] e quelli dei servizi di rete [4] offerti dalla società scelta, distinti tra quota fissa (definita in base all’area geografica) e quota variabile (definita in base alla quantità di gas consumata, differenziata in otto scaglioni di consumo). Attenzione soprattutto ai costi di commercializzazione [5], che comprendono tutti i costi che la società di distribuzione deve affrontare per l’acquisto della materia prima, cioè il gas. Il che rappresenta il 35% del costo totale della bolletta del gas.
L’Italia non è un Paese produttore di gas e per soddisfare il fabbisogno nazionale deve importalro. In base ai dati del ministero dello Sviluppoeconomico e dell’Aeeg, nel 2011 l’estrazione di gas sul territorio nazionale (sia in mare sia sulla terraferma) ha toccato quota 8 miliardi (giga) di metri cubi. Il massimo è stato raggiunto nel 1994, con 20 miliardi metri cubi, arrivando a soddisfare circa un terzo dei consumi nazionali dell’epoca. Da allora, la copertura del fabbisogno nazionale è scesa, com’è scritto nella realzione annuale dell’Aeeg, all’attuale 11 per cento. L’estrazione del gas nel nostro Paese è dominata da Eni, che possiede una quota di mercato dell’83 per cento. Seguono i gruppi Royal Dutch Shell ed Edison con quote simili intorno al 6,5% e Gas Plus con il 2,8 per cento. Ma la loro produzione non basta.
Per questo l’Italia deve importare il gas, soprattutto da Algeria (34%), Russia (28%) e Qatar (9%). Nel 2011 le importazioni di gas hanno superato i 70 miliardi di metri cubi, su un valore di consumi nazionali stimabile intorno ai 76 miliardi di metri cubi all’anno. Il grado di dipendenza dalle forniture estere si aggira quindi intorno al 90 per cento. Da sola, l’Algeria copre un terzo del fabbisogno di gas nostrano. L’importazione dalla Libia, ferma al 3% nel 2011, è crollata invece dopo la guerra civile. Nelle prime tre posizioni per l’importazione del gas, tramite gasdotto o navi, ci sono Eni, Edison ed Enel Trade. La maggior parte dei contratti stipulati ha una durata di 20 o 30 anni: sono i cosiddetti “take or pay”, in base ai quali l’acquirente è tenuto a pagare comunque il prezzo di una quantità minima di gas prevista dal contratto, anche se il gas non viene utilizzato. Le importazioni spot, invece, di durata per lo più annuale, rappresentano poco più del 9 per cento.
Il prezzo del gas importato (37 centesimi per un consumatore domestico tipo) è legato al prezzo del petrolio: più le quotazioni del greggio salgono, più costerà il gas per cucinare e riscaldarci. Poi vanno aggiunti i costi di stoccaggio e quelli di trasporto e distribuzione affrontati dalle compagnie, che rappresentano il 10% della bolletta e sono regolate dall’Autorità per l’energia.
Un capitolo a parte riguarda le imposte [6], indicate nella parte finale della nostra bolletta. Le forniture di gas sono soggette alle accise e alle addizionali regionali, con aliquote diverse a seconda della posizione geografica dell’utenza e del tipo di utilizzo, domestico o industriale. L’imposta erariale di consumo o accisa per “gli usi civili” è diversata per le due macrozone Centro Nord e Centro Sud (territori ex Cassa del mezzogiorno) e varia sulla base di quattro scaglioni di consumo (0-120, 120-480, 480-1560, oltre 1560 Smc). L’addizionale regionale è determinata invece autonomamente da ciascuna regione.
Le imposte, ha dichiarato l’Authority a fine giugno, rendono il prezzo del gas italiano più alto della media europea. «Al lordo delle imposte», è questa la dichiarazione del Garante, «il prezzo del gas per le utenze domestiche si è collocato a un livello superiore rispetto al prezzo medio europeo, con scostamenti positivi consistenti (circa +29%) per le classi di consumo più alte, per effetto di un livello di imposizione fiscale relativamente elevata rispetto alla media dei Paesi europei». Così, su un prezzo totale di 90 centesimi al metro cubo, quasi 31 sono costituiti dalle imposte. Al netto delle tasse, invece, i prezzi italiani del gas sarebbero inferiori a quelli di Francia e Germania e superiori a quelli in Spagna e nel Regno Unito, per le classi di consumo più basse.
Dopo l’accisa e l’addizionale regionale, come ultima voce della bolletta si trova l’Iva [7], l’imposta sul valore aggiunto, che viene calcolata sulle somme di tutte le voci della bolletta. Accise comprese. L’Iva è del 10% per i primi 480 metri cubi consumati, del 21% su tutti gli altri consumi e sulle quote fisse. Per i clienti con usi industriali, invece, è del 21%, a meno che non si faccia richiesta dell’aliquota agevolata. A questo punto, gli “oneri diversi da quelli dovuti per la fornitura di gas”, in coda al foglio, che riguardano ad esempio i contributi di allacciamento, il deposito cauzionale o gli interessi di mora, ci sembreranno solo degli spiccioli.
Andamento del prezzo del gas naturale per consumatore domestico tipo (Fonte: Aeeg)